il ritratto

Rahm Emanuel, un fustigatore a Tokyo

Giulia Pompili

La nuova vita da ambasciatore di Emanuel, tutto fuorché diplomatico. Se ne sono accorti in Cina e alla Casa Bianca

Quando è stato nominato ambasciatore americano in Giappone, poco più di un anno e mezzo fa, non tutti credevano nella trasformazione di Rahm Emanuel in un vero diplomatico. “Ci domandavamo: come farà, lui che anche ai tempi della Casa Bianca non riusciva a dire una frase senza una parolaccia?”, racconta al Foglio chi ci ha avuto a che fare. E del resto l’ex sindaco di Chicago, ai tempi in cui era deputato dei democratici per l’Illinois, a Washington era soprannominato “Rhambo”, come il veterano della guerra del Vietnam interpretato da Sylvester Stallone: uno che sapeva come ottenere quello che voleva, e lo diceva in modo a dir poco diretto. Due gli esempi che citano tutti, ogni volta che si parla di lui: quella volta in cui inviò a un sondaggista poco clemente, invece della solita torta al formaggio che Emanuel mandava a tutti, un pesce andato a male.  Oppure quando, durante lo scandalo Lewinsky nel 1998, l’allora primo ministro inglese Tony Blair si presentò al fianco del presidente americano Bill Clinton, e subito prima del discorso Emanuel disse ad alta voce al capo del governo britannico: “Questo è importante, non mandare tutto a puttane”. Era ciò che pensavano e speravano tutti alla Casa Bianca: il sostegno di Blair, in quella fase, era cruciale. Ma solo Emanuel aveva avuto il coraggio di dirlo così esplicitamente. 

C’è un meme che circola sui social da tempo ormai, e in cui si vede il leader cinese Xi Jinping con una faccia sconsolata che pensa: perché l’ambasciatore americano in Giappone è così ossessionato dalla Cina? La “ossessione” di Rahm Emanuel è cresciuta progressivamente a Tokyo, cioè uno dei luoghi in cui le contraddizioni e il bullismo cinese sono più evidenti. Proprio lì, dove se non sei un po’ abituato alla politica autoritaria di Pechino, alla continua disinformazione e alla manipolazione della realtà, finisci per voler rispondere punto per punto, ogni volta, giorno dopo giorno, Emanuel ha capito come interpretare il suo ruolo di ambasciatore. Usa soprattutto il profilo ufficiale dell’ambasciata, @USAmbJapan, su X, il social network noto come Twitter, per mandare i suoi messaggi a Pechino. E lo fa con uno stile preciso, perfetto, semplicissimo, una specie di Khaby Lame delle relazioni internazionali. Dopo che la Cina ha iniziato un lungo e violento boicottaggio dei prodotti ittici giapponesi, Rahm Emanuel ha pubblicato sul suo profilo quattro fotografie satellitari con la scritta: “Dicono che un’immagine vale più di mille parole. Navi cinesi che pescano al largo delle coste del Giappone il 15 settembre, le stesse acque a causa delle quali la Cina ha messo l’embargo sui prodotti ittici. #Fukushima”. Proprio così: a fine agosto l’Agenzia internazionale per l’energia atomica ha dato il via libera al sistema di smaltimento delle acque contaminate che erano servite a raffreddare i reattori della centrale nucleare giapponese danneggiata dal terremoto e maremoto del 2011: un sistema sicuro, scientificamente provato, studiato per anni dal governo giapponese e dall’Agenzia, che prevedeva il trattamento delle acque e il loro lentissimo rilascio nell’oceano. Per ragioni del tutto politiche, però, la Cina aveva accusato il Giappone di avvelenare il mondo, di essere un pericolo per l’umanità, e aveva deciso di bloccare tutte le importazioni di pesce dall’arcipelago – salvo poi, come mostrano le immagini pubblicate da Emanuel, andarci lo stesso a pescare illegalmente. Il mese scorso, quando sono iniziati a circolare i primi pettegolezzi sul secondo ministro cinese fatto fuori dalla circolazione (il ministro della Difesa Li Shangfu, scomparso dopo che pure il ministro degli Esteri Qin Gang era stato rimosso dal suo incarico) Rahm Emanuel ha scritto su Twitter: “La formazione dell’esecutivo del presidente Xi ora somiglia al romanzo di Agatha Christie ‘Dieci piccoli indiani’. Prima scompare il ministro degli Esteri Qin Gang, poi scompaiono i comandanti della Forza missilistica e ora il ministro della Difesa Li Shangfu non si vede in pubblico da due settimane. Chi vincerà questa corsa alla disoccupazione? I giovani cinesi o il governo di Xi? #MysteryInBeijingBuilding”. A giugno, incontrando la deputata giapponese di origine uigura Arfiya Eri, scriveva: “In Cina gli uiguri vengono imprigionati. In Giappone, gli uiguri vengono eletti alle cariche”, riferendosi direttamente alla repressione del Partito comunista cinese contro la minoranza etnica degli uiguri nella regione dello Xinjiang, che la Cina nega. 

Insomma, ci è voluto poco più di un anno per confermare che no, Rahm Emanuel non è cambiato. Nemmeno nel suo nuovo incarico da ambasciatore americano a Tokyo. Un ruolo per definizione ingessatissimo, ma anche piuttosto facile: la sede della capitale giapponese è considerata quasi un premio nei corridoi della politica americana. E lo è anche per via della residenza dell’ambasciatore americano a Tokyo, un edificio magnifico ad Akasaka, bianco con le porte in bronzo, disegnato nel 1931 da Harold Van Buren Magonigle, e sede dell’incontro tra il generale MacArthur e l’imperatore Hirohito nel 1945 (Emanuel si fa spesso fotografare nella celebre sala di rappresentanza). Perché è vero, magari a Tokyo c’è molto da negoziare, ma America e Giappone sono alleati di ferro, dunque è difficile trovarsi in situazioni tese o critiche. 

Eppure, per uno come Emanuel, fermarsi alla diplomazia senza diventarne il volto, la carne e le ossa, senza metterci il corpo e le parolacce, sarebbe stato impossibile. Questo il presidente Joe Biden, un attimo prima di nominarlo ambasciatore, probabilmente se lo aspettava. Sapeva esattamente chi stava mandando a Tokyo, tanto da averlo detto perfino al primo ministro giapponese Fumio Kishida durante un summit bilaterale online: stai attento a chi sta per arrivare in Giappone, gli aveva detto ridendo. Ma in quella fase, dopo due anni e mezzo di sede vacante all’ambasciata americana a Tokyo, quella scelta aveva un motivo ben preciso: nel 2017 Donald Trump aveva mandato in Giappone Bill Hagerty, ricco fondatore di un fondo d’investimento, ex consigliere economico di George W. Bush che aveva per un attimo sperato di poter diventare segretario al Tesoro. Hagerty si era ritrovato ambasciatore con un presidente che aveva iniziato a fare richieste ben poco diplomatiche al Giappone (come quando chiese all’improvviso a Tokyo di quadruplicare i pagamenti annuali per le forze statunitensi di stanza nel paese), e infatti dopo due anni si era dimesso e si era candidato al Senato. L’ultima ambasciatrice americana ad aver lasciato davvero un segno nella capitale giapponese era stata Caroline Kennedy, nominata da Barack Obama nel 2013 e oggi ambasciatrice in Australia, che è riuscita a diventare il volto della diplomazia statunitense nell’Indo-Pacifico. Il New York Times qualche settimana fa le ha dedicato un ritratto proprio per questo motivo, in occasione della nuotata di Kenney a Olasana, un’isola nella Provincia occidentale delle Salomone, dove ottanta anni fa nuotò pure suo padre John F. Kennedy, da giovane ufficiale della Marina, per salvare sé stesso e dieci suoi commilitoni. 

Dopo la sua esperienza da consigliere di Bill Clinton, da capo dello staff di Obama e sindaco di Chicago, Rahm Emanuel era invece scomparso dalla scena pubblica. Nel 2015 Rick Perlstein scrisse sul New Yorker che era difficile ricordare un momento in cui Emanuel non era la superstar del Partito democratico americano. Ma i suoi otto anni da sindaco di Chicago, soprattutto l’ultimo periodo, avrebbero in realtà definitivamente sancito “l’improvvisa ma meritata caduta di Rahm Emanuel”. E invece. In America gli ambasciatori sono di nomina politica, e la scelta di un presidente dice molto anche dell’importanza (o meno) del paese di destinazione di una nomina nella scala di priorità della Casa Bianca. Con la scelta di Emanuel, Biden voleva premiare un democratico a cui il Partito deve molto, ma anche dire a Tokyo: vi mandiamo il nostro uomo, la nostra rockstar: è così che la nostra alleanza ricomincia da zero. 

Una delle cose più difficili di un ambasciatore nominato in Giappone – Rahm Emanuel è stato indicato da Biden nell’agosto del 2021, confermato dal Senato a dicembre, ed è entrato ufficialmente in carica nel marzo del 2022 – è presentare le credenziali all’imperatore del Giappone, Naruhito: una cerimonia antica, piena di regole di protocollo e con un cerimoniale particolarmente pomposo. A marzo 2022, però, a causa delle misure anti-Covid Emanuel non ha avuto la possibilità di entrare nel palazzo imperiale, come da tradizione, con una carrozza degli inizi del Novecento trainata dai cavalli. Eliminato l’impaccio della carrozza, l’ex sindaco di Chicago    è entrato a palazzo con l’aria di chi sa che deve trattenersi per circa quindici minuti: c’è riuscito. Superato quell’ostacolo è stato tutto in discesa. Aveva già conosciuto Kishida – anche lui noto per avere un approccio politico molto informale, meno rigido rispetto alla tradizione giapponese – e al loro primo incontro Emanuel aveva regalato al primo ministro nipponico, grande fan dei Carp di Fukushima, un paio di divise delle squadre di baseball dei Cubs e dei White Sox, con la scritta “Kishida 100” stampata sul retro, essendo Kishida il centesimo primo ministro della storia nipponica. Appena arrivato, Emanuel era stato a Hiroshima in compagnia del primo ministro, la città colpita dalla Bomba atomica che nei mesi successivi sarebbe diventata sede del summit del G7, e nei giorni del boicottaggio cinese è andato a mangiare pesce a Fukushima: una presa di posizione più eloquente del discorso pronunciato a marzo all’Università di Tokyo, quando Emanuel ha detto che “la coercizione economica da parte della Cina è lo strumento più ostinato e pernicioso della loro cassetta degli attrezzi”. Più di recente, ha spiegato anche la questione del boicottaggio dei prodotti ittici giapponesi: “Credete davvero che sia un problema di salute pubblica? Se è un problema di salute pubblica, non vai a pescare in quelle acque”. All’inizio del suo mandato a Tokyo aveva messo un po’ in imbarazzo il governo, manifestando al Pride con gli ambasciatori del G7 e chiedendo il riconoscimento del matrimonio egualitario – un tema particolarmente sensibile per il Giappone. Ma nel giro di poco, grazie al suo stile definito da un giornalista giapponese “molto americano”, e per i temi da lui affrontati altrettanto cari ai giapponesi, è diventato uno degli ambasciatori più seguiti dai media locali: un idolo.  

E il suo metodo corsaro ha avuto il risultato che forse sperava: Mao Ning, la portavoce del ministero degli Esteri cinese, la scorsa settimana ha detto in conferenza stampa che l’ambasciatore americano dovrebbe “smetterla di sostenere i comportamenti irresponsabili del Giappone”.

 

Per ragioni diverse, non è la sola a iniziare a temere questo stile. Un paio di settimane fa la Nbc ha pubblicato uno scoop: di recente funzionari del Consiglio di sicurezza nazionale americano avrebbero contattato lo staff di Emanuel per suggerirgli di abbassare i toni contro la Cina. Secondo le fonti di Nbc il metodo martellante di Emanuel rischierebbe “di minare gli sforzi dell’amministrazione per ricucire le relazioni molto tese con Pechino”, e addirittura di far saltare i negoziati per un possibile incontro in autunno tra Joe Biden e Xi Jinping. “I tweet di Emanuel non sono in linea con il messaggio che arriva da questo edificio”, ha detto una fonte della Casa Bianca ai giornalisti. Gabriel Wildau, ad della società di consulenza Teneo Holdings di New York, ha detto al Japan Times che quella dell’ex sindaco di Chicago somiglia alla diplomazia dei cosiddetti “wolf warrior” cinesi, che perfino Pechino ha archiviato qualche tempo fa: “Questo tipo di diplomazia non fa nulla per migliorare le relazioni bilaterali, ma dubito che avrà un impatto negativo significativo perché Emanuel non ha alcuna autorità formale sulla politica degli Stati Uniti nei confronti della Cina”, ha detto Wildau. Ma l’immagine conta. E il messaggio deve essere arrivato. Due giorni fa Rahm Emanuel ha partecipato alle celebrazioni della Giornata nazionale della Repubblica Popolare Cinese, la 75esima, presso l’ambasciata cinese di Tokyo. Ha messo su Twitter una foto con il suo omologo cinese Wu Jianghao, e ha scritto su X un messaggio che non avrebbe potuto essere più diplomatico: “Oggi riconosciamo nel popolo cinese il forte spirito, le sue ricche tradizioni e la sua vibrante cultura. Mentre le nostre discussioni sulle politiche globali continuano, apprezziamo e rispettiamo il contributo del popolo cinese al miglioramento dell’umanità intera. Proprio come celebriamo il Giorno dell’Indipendenza, il nostro impegno collettivo è rivolto alla costruzione di un futuro più luminoso”. Rhambo si è messo a fare il diplomatico. Durerà? 

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.