L'offensiva delle sanzioni prima della controffensiva militare

Luciano Capone

In vista del G7, l'Occidente discute di come aumentare la pressione economica su Putin: gli Stati Uniti vogliono un divieto generale di export alla Russia, l'Europa preferisce di no. Ma tutti sono consapevoli che servono nuove restrizioni e bisogna chiudere le scappatoie attraverso paesi terzi

Al vertice del G7 in Giappone del 19 maggio si tornerà a parlare della guerra all’Ucraina e delle sanzioni alla Russia. Secondo quanto riportato da Bloomberg nei giorni scorsi, la linea degli Stati Uniti è quella di intensificare la pressione sull’economia russa ribaltando la logica dell’attuale regime sanzionatorio, in particolare sull’export: se ora tutte le esportazioni sono consentite eccetto quelle vietate, l’idea è quella di proibire tutte le esportazioni eccetto quelle esentate (ad esempio farmaci, cibo e prodotti agricoli). La proposta dell’Amministrazione Biden, però, secondo quanto riportato dal Financial Times, è stata respinta dall’Unione europea e dal Giappone perché ritenuta “infattibile”.

 

Dal punto di vista economico non sono in gioco valori enormi. Nell’ultimo anno l’export dell’Ue e del G7 verso la Russia si è quasi dimezzato e ora vale circa 66 miliardi di dollari. Il problema è politico, soprattutto per l’Europa. Da febbraio 2022 a febbraio 2023, l’Ue ha approvato 10 pacchetti di sanzioni contro la Russia riuscendo faticosamente a trovare l’unanimità necessaria tra i 27 stati membri, non senza difficoltà se solo si pensa alla posizione quantomeno ambigua dell’Ungheria di Orbán e di altri paesi che sono riusciti a ottenere delle deroghe temporanee (ad esempio sull’embargo al petrolio russo via tubo). Passare da un sistema che richiede un accordo sui settori da sanzionare a un divieto generalizzato che richiede un accordo sui settori da esentare potrebbe far saltare i difficili equilibri di Bruxelles e addirittura indebolire il fronte anti Putin. Alla notizia del possibile divieto totale sull’export del G7, l’ex presidente russo e attuale vicepresidente del Consiglio di sicurezza nazionale Dmitri Medvedev ha dichiarato che la Russia reagirebbe facendo saltare l’accordo sul grano, in scadenza il 18 maggio, fondamentale per l’export dell’Ucraina ma soprattutto per la sicurezza alimentare globale.

 

La proposta americana, seppure al momento difficile da realizzare, si inserisce in una politica più generale di inasprimento delle sanzioni, o incrementandole o infittendo le maglie che nel sistema attuale consentono scappatoie. Ufficiali dell’Amministrazione americana hanno messo in guardia vari paesi europei – in particolare Svizzera, Austria, Italia e Germania – sui sistemi che la Russia usa per eludere le sanzioni riuscendo ad accaparrarsi beni tecnologici cosiddetti dual use (cioè per uso sia civile sia militare). Gli Stati Uniti hanno annunciato nuove misure contro individui ed entità che contribuiscono all’aggiramento delle sanzioni. L’obiettivo, insomma, è aumentare la pressione economica sulla Russia in vista della controffensiva ucraina, anche stringendo i bulloni nei confronti dei paesi terzi che non aderiscono alle sanzioni.

 

In questo c’è uno sforzo congiunto di Stati Uniti, Regno Unito e Unione europea nei confronti di paesi del Medio oriente come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, la Turchia e dell’Asia centrale come Kirghizistan, Kazakistan e Uzbekistan che hanno approfittato delle sanzioni e spesso sono stati le basi per l’import parallelo in Russia di macchinari e tecnologia usata anche dall’industria della difesa. “Il rischio di sanzioni secondarie sta crescendo sia contro il Kazakistan che contro le società kazake e le banche kazake” ha dichiarato Elizabeth Rosenberg, ufficiale del Tesoro americano, proprio mentre era in visita nell’ex Repubblica sovietica. Il Kazakistan, che aveva dichiarato sin dall’anno scorso di non voler aiutare la Russia a eludere le sanzioni, ha annunciato l’introduzione di misure per chiudere possibili scappatoie.

 

In linea generale, c’è la consapevolezza che le sanzioni funzionano ma vanno inasprite. Nei giorni scorsi un gruppo internazionale di ricerca della Kyiv School of Economics (Kse) ha pubblicato uno studio sull’impatto delle sanzioni, che mostra soprattutto come l’embargo e il price cap sul petrolio abbiano iniziato a mordere, facendo deteriorare rapidamente sia la bilancia commerciale sia le finanze pubbliche russe. Ma per indebolire ulteriormente l’economia russa, la proposta del Kse Institute è di puntare alle esportazioni (più che alle importazioni russe) colpendo altri settori oltre quello dell’energia e inasprendo le sanzioni energetiche, ad esempio abbassando il price cap sul petrolio da 60 a 50 dollari al barile e infine a 30, iniziare a restringere ulteriormente le importazioni di gas e imporre sanzioni su Gazprom e le altre industrie petrolifere finora escluse dalle misure restrittive.

 

Proposte analoghe arrivano da un documento di 33 pagine prodotto dal gruppo Yermak-McFaul, dal nome del braccio destro di Zelensky e dell’ex ambasciatore americano a Mosca, una task force internazionale della Stanford University che lavora sulle sanzioni alla Russia. Si deve aiutare l’Ucraina “indebolendo le capacità militari della Russia e riducendo le risorse del Cremlino per finanziare questa guerra” e restrizioni nuove e migliori possono “fornire il supporto necessario”, dice il documento, ma c’è bisogno di un salto di qualità: “I paesi che cercano di porre fine a questa guerra devono andare oltre l’incrementalismo e imporre sanzioni qualitativamente più dure a un ritmo molto più rapido con un’applicazione più rigida”.

 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali