i rapporti con pechino

Due arresti per le "stazioni di polizia" cinesi. In America

Giulia Pompili

Così gli Stati Uniti proteggono la diaspora cinese dall’autoritarismo di Pechino. E l'Italia?

L’altro ieri l’Fbi ha arrestato due persone, residenti a  New York, con l’accusa di aver aperto e gestito una “stazione di polizia” cinese a Manhattan per più di un anno, sotto il controllo diretto dell’ufficio di Pubblica sicurezza di Fuzhou, un ramo del ministero della Sicurezza della Repubblica popolare cinese. Lu Jianwang, 61 anni, e Chen Jinping, 59 anni, sono accusati di aver agito come agenti del governo cinese senza aver informato le autorità americane e di aver ostacolato la giustizia: i due uomini hanno ammesso di aver cancellato i messaggi che si scambiavano con un funzionario del ministero di Pechino dopo aver scoperto di essere indagati. E’ la prima volta che vengono effettuati degli arresti legati al caso delle cosiddette “stazioni di polizia cinesi all’estero”.

Da quando all’inizio di settembre il Foglio e altri media internazionali, e  la ong Safeguard Defenders, hanno rivelato la presenza sul proprio territorio di “stazioni di polizia” virtuali cinesi, questa è la prima volta che viene confermata, almeno in America, l’illegalità di certe operazioni cinesi all’estero: molti paesi europei, compresa l’Italia, a seguito delle rivelazioni della stampa avevano annunciato indagini e investigazioni in merito, ma da quegli annunci non era mai seguita alcuna azione precisa. All’inizio di dicembre, il ministro dell’Interno italiano, Matteo Piantedosi, in Parlamento aveva confermato l’esistenza di un’indagine da parte dell’Aise e della Polizia di stato sulle strutture cinesi, che ufficialmente sarebbero servite a emettere patenti di guida e ad aiutare i cittadini cinesi nelle pratiche burocratiche grazie a un collegamento virtuale con stazioni di polizia cinesi in patria. Eppure, di fronte alla conclusione delle prime indagini in America, rischia di essere meno credibile anche la minimizzazione su cui hanno puntato, sin dall’inizio della vicenda, la propaganda cinese e i media più vicini a Pechino.


David Newman, viceprocuratore generale per la Sicurezza nazionale al dipartimento di Giustizia americano, ha detto l’altro ieri durante una conferenza stampa che i casi che hanno portato agli arresti “descrivono dettagliatamente come la Repubblica popolare cinese, attraverso il suo ministero della Sicurezza, sia impegnata in una campagna su più fronti per estendere la portata e l’impatto del suo sistema autoritario negli Stati Uniti e in altre parti del mondo. E mostrano gli sforzi della Cina per globalizzare le tattiche oppressive utilizzate dentro ai propri confini per mettere a tacere il dissenso”. C’è una macroscopica differenza tra l’approccio americano e quello europeo nelle vicende che riguardano la lunga mano della sicurezza cinese anche all’estero, e riguarda la protezione della diaspora cinese. Il dipartimento di Giustizia americano è uno dei pochissimi a occuparsi anche dei cittadini cinesi residenti in America che vengono molestati e perseguitati da altri cittadini cinesi – c’entra la politica, ma anche l’essenza stessa di un paese democratico costruito sul lavoro dei migranti. Sono i cinesi non allineati, i dissidenti, a essere il principale obiettivo dell’autoritarismo cinese all’estero: “Dal punto di vista fisico, il ministero per la Sicurezza ha creato un avamposto concreto, una stazione di polizia non ufficiale a New York  per monitorare e intimidire i dissidenti e le persone critiche nei confronti della Cina all’interno della diaspora cinese”, ha detto Newman, che poi ha annunciato alla stampa altri due casi che riguardano le attività del ministero cinese all’estero: alcuni funzionari del ministero dell’“amministrazione del cyberspazio” cinese sono accusati di essersi infiltrati nelle operazioni di una società tecnologica americana che lavora anche in Cina per interrompere le videoconferenze tenute da dissidenti cinesi all’estero.

C’è poi un terzo caso, in cui gli imputati sono 34 persone accusate di aver gestito una massiccia fattoria di troll online che ha inondato le piattaforme dei social media con falsi account che disseminavano disinformazione e tormentavano altri utenti. “Le vittime della repressione transnazionale negli Stati Uniti”, ha detto Newman, “sono troppo spesso individui che sono arrivati in America per beneficiare delle maggiori protezioni che la nostra Costituzione e le nostre leggi forniscono contro l’autoritarismo e la tirannia. Qui la legge protegge tutti noi nell’espressione pacifica delle nostre opinioni, delle nostre convinzioni e delle nostre idee. E in America, la legge ci protegge tutti allo stesso modo da persecuzioni, violenze e minacce di violenza”. Anche quando i governi autoritari – “siano essi la Repubblica popolare cinese, la Russia, l’Iran o altri”, dice Newman – si sforzano per arrivare ovunque. 

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.