Foto di Paul Pastourmatzis, via Unsplash 

indietro nel tempo

Un viaggio disperato alla ricerca di 15.000 prigionieri polacchi scomparsi

Francesco M. Cataluccio

Józef Czapski scrisse nel 1956: “Se mi dimenticherò dei morti di Katyn, Tu, Dio del cielo, dimentica me”. Nel suo "La terra inumana", l'artista cerca l'umanità nel fondo dell'inferno 

Sono sempre interessanti i libri di viaggio scritti da pittori perché il loro sguardo sulle cose e gli uomini ha qualcosa di più concreto, come illuminato da una luce tridimensionale. Pubblicato a Parigi nel 1949, La terra inumana (a cura di Andrea Ceccherelli, Adelphi, pp. 364, 28 euro) del polacco Józef Czapski (1896-1993), più che il resoconto di un viaggio però è un disperato viaggio all’Inferno perché, tra il 1941 e il 1942, Czapski, su incarico del governo polacco in esilio a Londra, andò su è giù per l’Unione Sovietica alla ricerca di 15.000 prigionieri polacchi scomparsi, quasi tutti ufficiali (tra i quali i padre del futuro regista Andrzej Wajda, che nel 2007 a quella vicenda dedicò un film sconvolgente: Katyn).

 

Viaggio inutile: nell’aprile del 1940, quando Unione Sovietica e Germania erano ancora alleate (in base al patto Molotov-Ribbentrop e si erano, tra l’altro, spartite la Polonia), per ordine di Stalin (datato 5 marzo) quei soldati erano stati tutti uccisi con un colpo alla nuca e seppelliti in fosse comuni nella foresta di Katyn, vicino a Smolensk (li ritroveranno un anno dopo i tedeschi, dopo aver invaso l’Unione Sovietica, la quale però fino al 1990 negherà di esser stata responsabile di quel massacro).

 

Quel gruppo di intellettuali polacchi, come Jerzy Giedroyc e Gustaw Herling (autore di uno straordinario libro sulla sua esperienza nel Gulag, Un mondo a parte (Oscar Mondadori, 2017), che, come Czapski, dopo la prigionia si arruolarono nella divisione polacca dell’esercito inglese comandata del generale Anders (che combatté a Monte Cassino, Ancona, Bologna), non tornarono più, dopo la fine della guerra, in Polonia, dove avrebbero rischiato il carcere. Si stabilirono a Maisons-Laffitte, alla periferia di Parigi, dove fondarono una casa editrice e il più importante mensile culturale dell’emigrazione polacca, “Kultura”. Per tutti loro la questione del massacro di Katyn rimase bruciante finché non emerse la verità su quella drammatica vicenda che mostrava emblematicamente la violenza e le menzogne del regime sovietico.

 

Si sentivano, rispetto a quei loro coetanei fatti assassinare da Stalin, come dei casuali sopravvissuti. Czapski, in particolare, l’aveva scampata per miracolo. Quando dopo il 1989 si aprirono per un po’ gli archivi sovietici, scoprì che per salvarlo si era mossa tutta l’aristocrazia d’Europa, con ripetuti interventi presso l’ambasciata tedesca di Roma (del diplomatico belga conte Ferdinand du Chastel) e sul ministro plenipotenziario del Terzo Reich in Italia.

 

La madre di Czapski apparteneva alla famiglia dei conti Thun-Hohenstein e il padre agli Hutten-Czapski. Era nato a Praga ma, dal 1909 al 1916, aveva vissuto a San Pietroburgo, dove aveva studiato diritto e fatto il servizio militare. Lui e la sorella Maria ebbero un’educazione veramente europea, fatta di lunghi viaggi, molte sollecitazioni culturali e avventure. Coinvolto nella rivoluzione del 1917, Czapski abbandonò la divisa per affermare le sue idee pacifiste, andando ad abitare in una sorta di comune a San Pietroburgo ispirata alle teorie pacifiste di Lev Tolstoj.

 

Avendo la Polonia riconquistato l’indipendenza nel 1918, si trasferì a Varsavia e si iscrisse all’Accademia di Belle arti. Durante la guerra russo-polacca del 1920 chiese di poter servire il suo paese senza dover far uso delle armi. Sapendo bene la lingua russa, fu incaricato di ricercare alcuni ufficiali polacchi scomparsi in Russia (e, dopo alcuni mesi di indagini, scoprì che erano stati giustiziati dai bolscevichi). Nel 1921 si iscrisse nuovamente all’Accademia di Belle arti, ma a Cracovia, e dopo due anni fondò un gruppo chiamato “Komitet Pariski” (Comitato di Parigi): contro la pittura polacca tradizionale di ispirazione storica e nazionalista, ma anche contro l’arte non figurativa. Nel 1924, partì con alcuni amici per Parigi dove rimase fino al 1932. Tornato in Polonia si mise a fare professionalmente il pittore e il critico d’arte. Czapski seguiva la lezione di Cezanne e, soprattutto, di Bonnard. 

 

Nel 1939, Czapski combatté per la seconda volta sul confine orientale della Polonia, nel vano tentativo di contrastare l’invasione dei sovietici. Fatto prigioniero il 27 settembre, era stato internato prima a Starobielsk, poi a Pawliszew e infine a Grjazovec. In questo campo di concentramento, per vincere la prostrazione e l’angoscia degli altri prigionieri, organizzò una “scuola aperta”, dove teneva delle lezioni su Marcel Proust (Proust a Grjazovec, Adelphi 2015). Riuscì a non impazzire anche perché, come mi disse, aveva messo in pratica, spontaneamente, l’unica strategia di sopravvivenza possibile: fare come se nulla fosse e conservare sempre la propria dignità. 

 

Andavo spesso a trovare Czapski, quando stavo a studiare nella biblioteca di “Kultura”. Era altissimo e magrissimo, con una fronte enorme che accentuava il profilo aquilino. Era già molto debole e usciva poco dalla sua stanza al piano superiore della villetta della casa editrice: molto luminosa, disordinata e piena, anche nelle scale, dei suoi bei quadri e disegni. Nei suoi dipinti c’è una grande attenzione, curiosità e rispetto verso le figure umane, colte in attimi particolari e quotidiani: nei caffè, nella metropolitana, a teatro.

 

Figure malinconiche e solitarie, come nei quadri di Hopper, ma con colori molto più forti. Gli piaceva ricevere visite e far vedere i suoi dipinti. Mostrava, pescandoli dalle precarie mensole sopra al letto, i suoi piccoli e panciuti quadernetti, una specie di immenso diario, dove scriveva i suoi pensieri e appiccicava di tutto: lettere e cartoline, ritagli di giornale, schizzi a penna. Li mostrava con l’orgoglio di un bambino che presenta il proprio album di figurine. Era molto curioso del mondo, ma era anche convinto che mancasse poco alla propria fine, che attendeva con la serenità di chi ha già visto morire troppa gente.

 

Józef Czapski scrisse nel 1956: “Se mi dimenticherò dei morti di Katyn, Tu, Dio del cielo, dimentica me”. Il primo libro che pubblicò a Roma, nel 1945, fu Ricordi di Starobielsk, in polacco, italiano e francese. Quattro anni dopo, inaugurando le pubblicazioni dell’Istituto letterario a Parigi, uscì La terra inumana. Oltre alla coraggiosa descrizione della natura criminale del sistema concentrazionario sovietico (Gulag), e lo smascheramento delle loro menzogne su Katyn, il libro è un grande affresco di un paese immenso, abitato da popolazioni estremamente varie ridotte, non soltanto a causa della guerra, a uno stato di profonda miseria. Czapski non prova nessun odio per i suoi nemici (non parla mai di “russi” ma di “sovietici”) e anzi, grazie alla sua conoscenza della lingua russa, è in grado di apprezzarne l’umanità e la cultura: è stato, tra l’altro, uno dei più acuti studiosi del mistico visionario russo Vasilij Vasil’evič Rozanov (1856-1919) e del suo L’apocalisse del nostro tempo (1918; Adelphi 1979), che ha influenzato la sua visione tragica del mondo e del suo destino.

 

Czapski cerca l’umanità nel fondo dell’inferno e distingue bene tra chi detiene il potere e il popolo che lo subisce, verso il quale ha un atteggiamento privo di pregiudizi e pieno di compassione. I grandi protagonisti di questo libro, scritto magistralmente, sono il Freddo e la Violenza. Per questo l’Unione Sovietica gli appare “inumana”, “disumana”, ma allo stesso tempo ovunque il lettore si imbatte in storie di grande umanità, quando la Bellezza riesce ad avere il sopravvento, con la letteratura, la poesia, l’arte e, soprattutto la musica: come nell’indimenticabile episodio (pp. 273-277) del giovane pianista ebreo Jan Holcman che suonando Chopin, su un precario pianoforte, riesce ad aprire una finestra di passione nei prigionieri.

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