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Quando la Polonia riscopre il suo cuore europeo

Paola Peduzzi e Micol Flammini

I Mig-29 sono al centro dell’aiuto militare all’Ucraina e un test atlantista per Varsavia. Poi ci sono i materassi di Cracovia e il silenzio sovranista

Per gli ucraini la vittoria della guerra contro la Russia passa per il cielo. Agli alleati occidentali chiedono una no fly zone e aspettano gli aerei da guerra fermi in Polonia. Il primo marzo il comando della forza aerea ucraina aveva annunciato su Facebook che settanta Mig-29 sarebbero stati recapitati a Kyiv e di solito, per un paese in guerra, queste notizie vanno gestite con cautela. Infatti dopo l’annuncio,  tra Polonia, quartier generale della Nato e Stati Uniti sono volati comunicati contrastanti che però non sembravano confermare l’enfasi degli ucraini. Così i Mig-29, caccia di origine russa  resi compatibili con i sistemi della Nato, sono diventati oggetto di desiderio per l’Ucraina e di timore per gli alleati occidentali. Il governo polacco ha detto che i suoi aerei sono a disposizione degli Stati Uniti, gli Stati Uniti hanno detto che la decisione spetta a Varsavia. E nel frattempo Vladimir Putin ascolta e osserva chi avrà il coraggio di mandare aerei da guerra a Kyiv da usare contro Mosca. Avrebbe dovuto essere un’operazione segretissima, invece è finita in una trama visibile a tutti. Gustav Gressel, esperto dello European council for foreign relations, ci ha detto che l’operazione stenta a realizzarsi anche per come è stata gestita: avrebbe avuto bisogno di massima segretezza, e invece.

 

I Mig-29 sarebbero un grande alleato per l’esercito ucraino, in quanto ostacolerebbero i bombardamenti russi: “Farebbero una grande differenza, certo non cambierebbero la situazione nell’immediato, ma potrebbero protrarre il logoramento della Russia”. I polacchi non hanno intenzione di consegnare direttamente gli aerei a Kyiv, vogliono alcuni passaggi ulteriori: prima vogliono portarli nella base tedesca di Ramstein. “Bisognerebbe poi o condurre lì dei piloti ucraini o effettuare dei voli di transito separati dalle azioni militari”. Inoltre bisogna  privarli delle  componenti Nato, non possono essere mandati così per motivi di sicurezza, “vanno ucrainizzati e non si sa quanto velocemente si possa fare”. Portarli alla base di Ramstein  servirebbe anche  per un motivo di sicurezza internazionale: chi si assume la responsabilità di aver inviato degli aerei da usare contro la Russia? Attorno a questa domanda gira anche il futuro della guerra che ha un protagonista, l’Ucraina, ma sullo sfondo è guardata con attenzione da tutti gli altri. Anche dalla Polonia che scalpita e a noi altri dice: svegliamoci, ci vuole più unità, ci vuole più Nato, più Ue. E sì, fa strano sentire che sia proprio Varsavia a chiederci  più Europa.

Dove sono i jet polacchi? Il trasferimento nella base tedesca di Ramstein e la necessità di “ucrainizzarli” 

 

Con i Mig-29 ognuno fa il suo gioco. Il governo polacco è stato molto attivo a sensibilizzare gli alleati europei, ha fatto capire quanto fosse necessario mandare armi e imporre sanzioni, ma di mandare direttamente i Mig da Varsavia non se la sente. Krystian Ziec è un ex pilota di F-16 e oggi è un esperto di difesa e sicurezza della Fondazione Casimir Pulaski, ci ha detto che la Polonia da sola non può caricarsi di una responsabilità che Mosca leggerebbe come una minaccia diretta, quindi Varsavia cerca il coinvolgimento internazionale. Ma mentre lo cerca ha l’impressione che gli Stati Uniti vogliano proprio il contrario: mandano la Polonia avanti, dicono che inviare i Mig è rischioso e che quindi richiede una forte decisione da parte del governo polacco. Sembrano scaricare la responsabilità su Varsavia ma  nel frattempo  ieri le hanno inviato due sistemi di difesa antimissile Patriot. “Tutti capiscono che si tratta di una mossa rischiosa ma importante per Kyiv,  Varsavia però non può non tutelare la propria di sicurezza. Non teme un attacco come quello che la Russia ha lanciato contro l’Ucraina, ma teme altre minacce o provocazioni: anche gli avvertimenti possono essere pericolosi”. Quindi Varsavia, ci ha detto Ziec, vuole far vedere che non si muove da sola: “Non vuole trovarsi nella posizione in cui la Nato possa dirle: ok Polonia, hai preso la decisione di mandare gli aerei, questo è il prezzo”. Tale ragionamento riflette anche la sfiducia del governo polacco che non crede che la Nato sarebbe disposta a morire per Danzica. “Ognuno fa il suo gioco, l’Ucraina chiede l’equipaggiamento di cui ha bisogno, gli Stati Uniti sarebbero contenti se  lo avesse, ma preferirebbero che la Polonia agisse per conto suo. La Polonia però sa di non poter fare da sola. “Siamo onesti – dice Ziec – non c’è in Europa un esercito in grado di competere con la Russia, anche se Mosca sta dimostrando di avere molti problemi rimane più forte. Per questo c’è bisogno di coordinarsi e agire insieme”. In Polonia circola un’altra teoria sui Mig: c’è chi sostiene che in realtà si trovino già in Ucraina e che tutto questo fumo serva soltanto a confondere la Russia. Intanto a Varsavia cresce un nuovo sentimento: e se il cuore dell’atlantismo si stesse spostando più a est?

 

La città dei rifugiati. Se l’attivismo diplomatico della Polonia non sorprende – la Russia la riguarda da vicino – in molti sono rimasti increduli nel vedere l’accoglienza nei confronti degli ucraini. Ve li ricordate i muri dello scorso autunno contro i migranti mandati da Lukashenka dalla Bielorussia? Ora invece la Polonia è a braccia aperte. Accolgono i bianchi, dicono in molti. Ed è anche vero, ma le città sono diventate un teatro di solidarietà e accoglienza che non poteva essere messo in piedi senza un senso di gratitudine che i polacchi nutrono nei confronti degli ucraini: voi state combattendo per la libertà di tutti noi. A Cracovia spuntano ovunque punti di ristoro per chi scappa, le bandiere dell’Ucraina si mischiano con i cartelli contro Putin. Per le strade si sente parlare più ucraino che polacco, i gruppi costituiti soprattutto da donne e bambini si muovono per la città in cerca di un appartamento, di un posto in cui mangiare o  di qualcosa da fare, foss’anche una visita guidata. Nell’edificio vecchio della stazione centrale ci sono materassi ovunque, per i corridoi che portano ai binari c’è tantissima gente in attesa. Le code per comprare i biglietti sono lunghe: a Cracovia si arriva e da Cracovia si riparte. Olga è una signora che vive vicino Kyiv e che dice di aver chiuso la porta e di aver lasciato le chiavi dentro e si preoccupa che non vengano i ladri. Ania ha mal di schiena e si lamenta  degli antidolorifici polacchi che sono più leggeri di quelli ucraini oppure i medici sono meno bravi. Entrambe si stringono la borsa quando vedono entrare nell’edificio delle zingare con bambini: “La guerra è arrivata pure per loro, ma proprio qui devono venire?”. I volontari si danno molto da fare, sul piazzale tra la stazione e l’enorme centro commerciale della Galeria Krakowska allestiscono dei tendoni per sistemare delle cucine. C’è fermento ovunque e per ora, dicono, sono i cittadini che stanno contribuendo di più: gli sforzi economici e di sicurezza dello stato si stanno concentrando sul confine. Le crepe però si iniziano a vedere, la pressione è  forte, la Guardia di frontiera ha detto che ormai è entrato più di un milione di persone e Yulia e Svetlana che hanno con loro cinque bambini non hanno un posto in cui fermarsi: è tutto pieno. E a volte sono i cittadini ad accogliere direttamente a casa loro. Di giorno in giorno la folla aumenta,  la paura dei volontari inizia a essere quella dell’impreparazione: dobbiamo dare agli ucraini il meglio, non possono venire qui e trovare un altro girone dell’inferno.

Nella stazione di Cracovia, Ania ha mal di schiena e si lamenta che gli antidolorifici polacchi sono più leggeri di quelli ucraini 

 

Morawiecki l’atlantista e gli altri. Il primo ministro polacco, Mateusz Morawiecki, è diventato il volto di questa Polonia che vuole svegliare l’Europa e anche l’America. Nei mesi scorsi era il volto di chi l’Ue la voleva distruggere con le derive autoritarie, gli improperi contro i valori, le Polexit e le exit dal diritto europeo. Oggi è un’altra persona: o meglio è la stessa, ma in questo sistema di difesa, in questa fase di guerra, la Polonia riscopre il senso del suo attaccamento europeo. Morawiecki è sempre stato il volto ragionevole del partito, quello che rappresentava il PiS, il maggior partito di governo, nella sua versione più moderata, costretto a uniformarsi agli altri per non perdere il posto. Morawiecki ha detto “accogliamo”, ha detto “mandiamo armi”, ha preso Viktor Orbán in disparte per fargli capire che con Putin non si può stare. Ora che Morawiecki ha molto da dire e riporta l’atlantismo al centro del dibattito polacco, gli altri sembrano sentirsi meno. Non si sente Jaroslaw Kaczynski, non si sente il ministro della Giustizia Zbigniew Ziobro. Quest’ultimo sembrava pronto a un patto di sangue con gli altri sovranisti europei, anche con i russofili come Orbán e come Marine Le Pen, diceva che ormai la Russia era un problema superato: non ci aveva capito molto. Assieme a Morawiecki, tra le istituzioni,  c’è il presidente polacco Andrzej Duda a farsi carico della causa ucraina, sente tutti i giorni Volodymyr Zelensky. Premier e presidente sono le due figure di riferimento, non si sa se stiano rispostando le priorità della Polonia, se la stiano conducendo fuori dalla sua sbornia sovranista, euroscettica, isolazionista, ma per ora hanno ben chiaro cosa conta: c’è Putin, e qui ci  siamo noi che stiamo con Kyiv.


Cracovia ha un suo suono, si sente a ogni ora del giorno e della notte, proviene dalla torre più alta della basilica di Santa Maria e viene fatto da una tromba in quattro direzioni: i punti cardinali. E’ l’hejnal, il segnale di pericolo che veniva suonato anticamente in caso di attacco nemico o di altre calamità. A un certo punto, ogni giorno e ogni ora, la melodia si interrompe ricordando quando il guardiano che avvisava i cittadini dell’invasione dei tatari venne colpito da un dardo. Riuscì comunque a mandare l’allarme, ma da allora l’hejnal non arriva alla sua ultima nota. E’ un modo per la città per ricordare che la storia torna, i tatari non c’entrano più, ma i confini è bene guardarli ed è bene distinguere gli amici dai nemici, e richiamare l’attenzione dei primi e non togliere mai gli occhi dai secondi. Aiutare gli ucraini a fuggire è il minimo, dicono i polacchi. E per tutta Cracovia ci sono segnali di questa fratellanza polacco-ucraina. Uno dei piatti tipici della cucina polacca sono i pierogi, ravioli grandi e con molto ripieno che a seconda degli ingredienti hanno un  nome  diverso. Ci sono anche i ravioli ruskie e molti ristoranti sui menù hanno tracciato una linea: ora si chiamano ukrainskie.