Il numero delle vittime del terremoto fra Turchia e Siria ha superato quota 6 mila. Ma il bilancio è destinato a crescere ancora (foto LaPresse)

La "crisi nella crisi"

Molto di quello che si potrà fare in Siria dopo il terremoto dipende da Putin

Luca Gambardella

Il corridoio umanitario con la Turchia va riaperto, ci dice l’agenzia Onu per gli aiuti umanitari. L'alternativa è aprire le vie d'accesso da sud, dove c'è Assad. Che non aspetta altro per essere legittimato

Il nord della Siria colpito dal terremoto è isolato e questo rende complicato dare assistenza alle decine di migliaia di persone sfollate e a quelle ancora sepolte dal fango e dalle macerie. La conta dei morti ha superato quota 6 mila fra Turchia e Siria ma, secondo alcune stime dell’Organizzazione mondiale della sanità, la tragedia ha assunto proporzioni inimmaginabili e alla fine saranno oltre 20 milioni le persone che, a diversi livelli, saranno interessate dagli effetti del terremoto. Una “crisi nella crisi” è quella che interessa in particolare il nord-ovest della Siria, dove la guerra, il Covid, la povertà, la fame, il colera e le temperature sotto lo zero sono tragedie che si intrecciano l’una all’altra. Il terremoto non ha fatto che accelerare il tutto.  

  

“Il sisma ha interessato una zona dove vivevano già oltre 4 milioni di persone, soprattutto donne e bambini, che dipendevano totalmente dall’assistenza umanitaria”, spiega al Foglio Jens Laerke, portavoce di Martin Griffiths, vicesegretario generale dell’Onu per gli Affari umanitari e coordinatore delle operazioni di emergenza. La priorità è dare rifugio a chi non sa come proteggersi dal freddo. “Stiamo facendo il possibile, ma le organizzazioni umanitarie che collaborano con noi nella zona hanno riferito che i loro uffici e magazzini sono stati danneggiati e che gli ospedali sono sovraffollati. C’è necessità urgente di tende, lenzuola, combustibili, stufe e tendoni in plastica”. 

 

I primi ad attivarsi sono stati i White Helmets, un corpo di appena tremila volontari addestrati da turchi e qatarioti e che in tutti questi anni sono stati gli angeli custodi di centinaia di migliaia di persone salvate dai bombardamenti del regime siriano e degli alleati russi. Lo sforzo dei volontari però è insufficiente e mancano di risorse, prima fra tutte il carburante, che in Siria è diventato un bene prezioso, spesso contrabbandato sul mercato nero. Le missioni dell’Onu già attive in questi anni di guerra erano calibrate per prestare aiuti umanitari post bellici. Significa che erano idonee a fornire assistenza sanitaria, a dare cibo e acqua, ma non sono adatte a prestare assistenza in casi di primissima emergenza o ad attivare operazioni di recupero dopo disastri naturali. Appena lo scorso dicembre, è stato proprio il vicesegretario Griffiths a rivolgere un appello accorato al Consiglio di sicurezza dell’Onu, dove sedeva il rappresentante russo: “La stima per i finanziamenti riservati alla Siria è deprimente – aveva detto – Il Piano di risposta umanitaria del 2022 è stato finanziato per appena il 43 per cento. Un livello di finanziamenti tanto basso è senza precedenti. Sappiamo quali siano le ragioni che hanno contribuito a questa situazione. Ma per favore, permetteteci di provare a non raggiungere un altro record così deprecabile il prossimo anno”. La nuova crisi umanitaria non farà che peggiorare la situazione, aggiunge ora Laerke: “Il finanziamento è perennemente basso e ora il livello complessivo delle difficoltà che le organizzazioni umanitarie si ritroveranno ad affrontare è destinato a crescere. A ogni modo, non è il momento di fare speculazioni su come i finanziatori reagiranno a questa crisi ulteriore. Dobbiamo solo pensare a  dare seguito all’appello rivolto alla comunità internazionale dal segretario generale dell’Onu per aiutare migliaia di famiglie colpite dal disastro”. 

 

La difficoltà principale riguarda le vie d’accesso alle zone colpite dal terremoto, un territorio in cui oltre il 65 per cento delle infrastrutture era già stato distrutto o danneggiato dalla guerra. Ora il sisma ha reso inservibile l’aeroporto di Antakya, nel sud della Turchia, così come il porto di Iskenderun e le strade che portano a Gaziantep e poi giù, fino al confine siriano. Quindi gli aiuti umanitari hanno enormi difficoltà ad arrivare in Siria, gli ospedali sono saturi anche in Turchia e ciò impedisce che i feriti possano ricevere assistenza oltreconfine. A oggi esiste un solo valico frontaliero da cui i convogli umanitari possono transitare, quello di Bab al Hawa, nel nord-ovest. Gli altri sono stati chiusi nell’ultimo anno per l’opposizione della Russia, che ha posto il veto in seno al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Una crudeltà con chiari intenti politici – gli aiuti umanitari, dice Mosca, devono passare direttamente dalle mani del regime di Damasco, non da paesi terzi – che oggi ha conseguenze ancora più drammatiche.

 

“Prendiamo atto dell’offerta di aiuto rivolta dalla Russia al governo siriano per rispondere all’emergenza – dice Laerke – Ma sottolineiamo anche che questo disastro, ancora una volta, ci ricorda quanto sia importante dare seguito alle operazioni interfrontaliere, fino a quando l’emergenza umanitaria non potrà essere risolta attraverso passaggi alternativi”. Il messaggio è per la Russia, affinché tolga il veto e permetta il transito degli aiuti attraverso il confine turco. Il “passaggio alternativo” a cui si riferisce il portavoce dell’Onu sarebbe il sud, che però è controllato dal regime. Bassam Sabbagh, ambasciatore siriano all’Onu, ha detto che tutti gli aiuti umanitari sono benvenuti, a condizione che passino da Damasco. Il problema della politicizzazione degli aiuti nella crisi siriana sta tutto qui: mettere il materiale umanitario direttamente nelle mani di Assad consentendogli di decidere verso quali zone inviarlo significa legittimarlo o alimentare una macchina degli aiuti da cui tanti personaggi vicini al regime hanno tratto profitto in anni di guerra. Assad non aspetta altro, ma lo stato di emergenza in cui si trova il versante turco sembra non concedere alternative se si vuole fare arrivare in tempo i beni di prima necessità nel nord-ovest della Siria.

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.