La Cina potrebbe usare come un'arma i suoi cargo. E' un problema anche europeo

Giulia Pompili

Che cosa succede se si rompe la catena di approvvigionamento e il commercio globale, dove Pechino nei decenni si è costruita una posizione dominante

Nelle ultime settimane il dibattito europeo sul decoupling dalla Cina, cioè il completo disaccoppiamento dall’economia cinese, si è lentamente spostato verso un’altra parola chiave: derisking. Vuol dire diminuire il rischio nei rapporti, soprattutto commerciali, con Pechino, lasciando però dei canali di collaborazione aperti. La prima a usare ufficialmente l’espressione è stata la scorsa settimana, a Davos, la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. Parlava della collaborazione industriale, degli investimenti europei in Cina, di pratiche inique. Ma a Bruxelles sanno che un sistema di limitazione dei rischi con Pechino non può riguardare soltanto la reciprocità negli investimenti. C’è il tema della dipendenza dalla Cina per le materie prime del settore tecnologico, e ci sono problemi molto più articolati, che riguardano la catena di approvvigionamento e il commercio globale, dove Pechino nei decenni si è costruita una posizione dominante. 

 

Ieri la Mediterranean Shipping Company – la linea di gestione cargo svizzera, di origini italiane, la più grande al mondo – ha annunciato il divorzio con la danese Maersk Line, la seconda per trasporto container del mondo. Nel 2015 Msc e Maersk avevano firmato un’alleanza, la 2M, per la condivisione di spazio sulle navi e rotte e rafforzare la loro posizione sui traffici internazionali dall’Atlantico al Pacifico. L’alleanza 2M sarebbe dovuta durare dieci anni ma non verrà rinnovata “affinché entrambe le società continuino a perseguire le proprie strategie individuali”, si legge nel comunicato congiunto. Il trasporto internazionale via mare è dominato dalle alleanze. 2M era la più importante del mondo, e adesso, secondo diversi analisti, il problema è che potrebbe lasciare ancora più spazio alla Ocean Alliance, l’alleanza dominata dal colosso del trasporto internazionale, Cosco Shipping – società statale cinese e secondo operatore portuale al mondo. Christopher R. O’Dea, adjunct fellow al think tank conservatore Hudson Institute, da anni studia il metodo cinese di trasformare il trasporto internazionale in un asset, quando non in un’arma di coercizione economica nei confronti del resto del mondo. Secondo O’Dea il disegno della leadership cinese si muove attraverso le partecipazioni delle sue compagnie nei porti di mezzo mondo e attraverso i colossi della logistica: “Gli altri membri della Ocean Alliance sono Evergreen Line, con sede a Taiwan, e Cma Cgm, una società a conduzione familiare con sede a Marsiglia, in Francia, con profondi legami con le società statali cinesi. Cosco e altre compagnie portuali e di navigazione statali cinesi, a partire dal 2000, hanno aumentato costantemente le loro partecipazioni in occidente. Secondo alcuni analisti, le società cinesi possiedono o gestiscono terminali in 96 porti di 53 diversi paesi. Ma è questa relativa manciata di terminali che le società statali cinesi controllano nei porti che servono i principali centri abitati dell’occidente a creare la maggiore esposizione alla leva cinese”, ha scritto  O’Dea due settimane fa sul Wall Street Journal, parte del suo lavoro che verrà pubblicato in un libro, “Ships of State: The Maritime Logistics Foundations of the New Chinese Empire”. Il controllo dei porti e dei terminal nei porti occidentali consegna alla Cina un’influenza economica e politica magari impercettibile, ma che ha a che fare con quel derisking di cui parla la Von der Leyen.  A volte certi contratti vengono “persino definiti ‘concessioni’”, scrive O’Dea, “il che implica giustamente che i governi occidentali accettino le superiori capacità logistiche containerizzate che le compagnie cinesi hanno sviluppato da quando hanno acquisito la tecnologia americana alla fine degli anni Settanta”.

 

E’ una questione che riguarda tutta l’Europa: oltre all’acquisizione pressoché totale del porto del Pireo, in Grecia, da parte della Cina, a ottobre scorso si è discusso molto della partecipazione del gruppo Cosco al terminal dei container del porto di Amburgo, autorizzata dal governo di  Olaf Scholz  al 24,9 per cento. C’è poi il porto di Duisburg, la città del carbone e dell’acciaio, visitata addirittura dal leader Xi Jinping nel 2014. In Italia la mappa dei porti praticamente dipendenti dalle compagnie cargo cinesi è complessa: ai tempi della firma della Via della Seta, nel 2019, si parlò moltissimo di una partecipazione cinese nel porto di Trieste, poi fallita, ma che si risolse comunque con un aumento della “connettività” attraverso società cinesi. Succede in infrastrutture meno esposte mediaticamente: il porto di Vado Ligure, per esempio, è per il 40 per cento di proprietà di Cosco e per il 9,9 per cento della Qingdao Port International. Anche le più piccole partecipazioni, gli accordi per intensificare e privilegiare le alleanze di trasposto a guida cinese, secondo  Christopher R. O’Dea, farebbero parte di un sistema della leadership cinese studiato proprio per usare come un’arma la dipendenza dalla Cina delle infrastrutture europee e, in modo ancora più critico, per avere un efficiente piano logistico in caso di crisi o conflitto internazionale. Chi porrebbe sanzioni contro la Cina, se poi la conseguenza potrebbe essere il fallimento di diversi porti in Europa? Il commercio e il trasporto globale è in una fase di rivoluzione (complici la pandemia, la guerra in Ucraina, ma pure l’attenzione dei consumatori al cambiamento climatico e ai costi-benefici di un divano arrivato dall’altra parte del mondo a bassissimo costo, scriveva ieri il New York Times) e il derisking con la Cina passa anche attraverso il suo dominio delle rotte commerciali.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.