Cristophe Berti, screen di YouTube 

l'intervista

Qatar gate: "Non ci risultano altri nomi, non è Netflix". Parla il direttore di Le Soir

Marianna Rizzini

Christophe Berti ci racconta i dettagli dell'investigazione e la storia di come nasce lo scoop. Dall’Italia chiedono se ci sono altre persone coinvolte, ma il giornalista risponde di no: "La storia ci pare già abbastanza grave così"

La scena è questa: Christophe Berti, direttore del quotidiano belga Le Soir, è seduto nel suo ufficio. Da giorni, ogni giorno, riceve telefonate fameliche di giornalisti italiani che chiedono delucidazioni sul cosiddetto Qatar gate (che però sul suo giornale – il giornale che ha fatto lo scoop – non è chiamato così). Vogliono sapere, i colleghi, se ci sono altri nomi, racconta Berti al Foglio: “Ma non c’è altro, quello che dovevamo scrivere lo abbiamo scritto”. E il film dell’inchiesta, visto a ritroso, dice Berti, “supera la fantasia”. I cronisti di Le Soir, giornale che sull’investigazione punta molto e che fa parte di due grandi consorzi mediatici investigativi internazionali, lavoravano da tempo sul caso.

 

Le riunioni, in redazione, si fanno senza telefonini, e in generale tra colleghi non si comunica via Whatsapp ma su altre piattaforme, dice Berti: “Durante una di queste riunioni, tempo fa, abbiamo appreso che due nostri cronisti avevano ricevuto informazioni su un’indagine clamorosa che riguardava i tentativi di ingerenza di alcuni paesi presso le istituzioni europee. Ma, per senso di responsabilità e per evitare di pubblicare notizie inesatte, abbiamo lavorato a lungo per avere conferme alle voci, controllando e incrociando i dati”. Sapevano, a Le Soir, che qualcosa stava per succedere, pur non sapendo il giorno esatto (poi sarà il 9 dicembre). Sapevano che per gli inquirenti c’era un muro: l’immunità parlamentare europea.

 

“Se vuoi intercettare un parlamentare”, dice Berti, “è come se dovessi chiedere il permesso a lui”. Ed ecco che gli inquirenti si concentrano su personaggi privi dell’immunità: Francesco Giorgi e Antonio Panzeri in primis. “Poi la storia prende una piega che ha dell’incredibile, in questo piccolo paese che è il Belgio – dove però si concentrano le sedi delle principali istituzioni europee e internazionali e dove si vive come in una bolla. Una bolla in cui si incrociano interessi diversi, e anche inchieste diverse”, racconta il direttore di Le Soir. Dopo la prima bomba mediatica, il giornale pubblica una serie di articoli sull’indagine: le intercettazioni di Panzeri, la perquisizione di Marc Tarabella, la questione del Marocco.

 

In questo caso, la svolta, per un’indagine partita a luglio e proseguita attraverso varie tappe, arriva per un inatteso disegno di coincidenze che permette di agire su “flagranza di reato”, dopo l’arresto di Giorgi, quando il padre di Eva Kaili viene sorpreso fuori da un hotel con l’ormai famosa valigetta contenente seicentomila euro. Arrivano a quel punto la declassificazione e le successive perquisizioni. Ci si è chiesti, nell’Italia in cui dire “inchiesta” è come dire miele per le api mediatiche (ed ecco che i giornalisti chiedono altri nomi) se “così fan tutti”, se ci sono altre istituzioni o organismi coinvolti. Berti ripete: “Non ci risultano altri nomi, non è una puntata di una serie su Netflix, e la storia ci pare già abbastanza grave così. Intanto attendiamo gli sviluppi. L’esame dei documenti e le eventuali confessioni  potrebbero permettere di aprire le porte del Parlamento europeo”.

 

Non per niente il giudice Michel Claise, specializzato in contrasto alla corruzione, parla di attacco a una “fortezza” con “la catapulta”. Intanto qui, in Italia, l’eco del Qatar si è diffuso da giorni nelle stanze già intristite del Nazareno: nel Pd il morale è a terra, non soltanto per sondaggi e intoppi sulle regionali. Ci si è messo appunto, a dare la mazzata mediatica, anche il caso Qatar, e a poco è servito dire, come ha fatto il segretario Enrico Letta, che il Pd “sarà parte civile al processo a Bruxelles”. 

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.