Geopolitica dell'ambiente. Come integrare la natura nel nostro futuro

Giulio Boccaletti

Negli ultimi 40 anni siamo triplicati, il numero di animali legati a ecosistemi terrestri e marini è calato di quasi la metà. Il convegno di Montréal sulla biodiversità: con la Cina, senza gli Stati Uniti

In questi giorni si è svolto a Montréal il quindicesimo incontro dei paesi contraenti la convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica. Superficialmente, pare esserci consenso sulla necessità di obiettivi ambiziosi: la protezione del 30 per cento di oceani e terra entro il 2030, un traguardo di aree protette che raddoppia quello di Aichi fissato nel decennio precedente. Il problema è che quest’ultimo non è stato raggiunto. Raddoppiare un fallimento è un’ambizione quantomeno sospetta, sintomo di un meccanismo impotente di fronte a una sfida colossale. 

 
Per altro, la letteratura scientifica è concorde sul ritenere che molta di questa protezione è solo su carta. La biodiversità non è facilmente definibile. Dipende dal contesto disciplinare: la genetica la concepisce in modo diverso dalle scienze degli ecosistemi. Si tratta di una gerarchia di definizioni che poco si adatta a una gestione manageriale. Detto questo, i dati che ci sono dipingono una situazione deprimente. Negli ultimi quarant’anni noi siamo triplicati. Nello stesso periodo, il numero di animali legati a ecosistemi terrestri e marini è calato di quasi la metà e quello di pesci, anfibi, uccelli legati ai sistemi di acqua dolce – fiumi, laghi, paludi – è crollato dell’ottanta percento, un tasso di perdita simile a un’estinzione.

 
Sarebbe facile scegliere di ignorare il tema dello stato degli ecosistemi: apparentemente un problema mal definito, al quale comunque non sembriamo essere in grado di dare risposta, e che pare avere poco a che fare con la quotidianità, dall’inflazione alla guerra. In Italia poi, dove tanto ambientalismo sembra essere basato su ideologie fragili e considerazioni estetiche – la retorica del “Bel Paese” – la competizione politica su questi temi si distingue sia per ingenuità che per disinteresse. Ma scegliere l’analfabetismo ambientale è un errore grave per tre ragioni. 


La prima è che, lo scorso febbraio, l’Italia ha costituzionalizzato la tutela della biodiversità e degli ecosistemi, riformando gli articoli 9 e 41 della Carta. Mentre la riforma, approvata a larga maggioranza, non ha chiarito cosa si intenda per biodiversità o ecosistemi, negli ultimi mesi, lo ha fatto la realtà. Dall’inondazione delle Marche alla siccità del Po, dallo scioglimento della Marmolada alla tragedia di Ischia, lo sgretolarsi della sicurezza fisica di tante comunità italiane dimostra che gli ecosistemi che importano non sono tanto i parchi nazionali, quanto le montagne, i fiumi, e le coste che stanno trasformando la nostra vita. 


Chiamatela come più vi piace: protezione ambientale, riduzione del rischio idrogeologico, gestione del territorio, o – come ora dice la Costituzione – tutela del paesaggio, della biodiversità e degli ecosistemi. In un paese coperto per un terzo da foreste, attraversato da migliaia di torrenti e fiumi rapidi e ripidi, e alla mercé di un cambiamento climatico più radicale del resto d’Europa, è gestione sostenibile di logistica e urbanizzazione, produzione agricola e produttività economica. Si tratta di casa nostra e di come funziona. Importa.

  
La seconda ragione per la quale è un errore disinteressarsi dei temi di Montréal è economica. C’è un’importante novità: la presenza del settore privato internazionale. Compagnie e finanziatori sono in prima linea a Montréal, e nelle riunioni a latere stanno cercando di definire che cosa voglia dire questa spinta verso la valorizzazione dell’ecologia. Ovviamente non tutti i proclami produrranno risultati, ma sarebbe ingenuo pensare che l’interesse sia solo di facciata. Ci sono interi settori di innovazione tecnologica che si stanno occupando di misurare lo stato dell’ambiente, dall’uso di infrastrutture satellitari a tecnologie per il campionamento del Dna ambientale. 


I dirigenti più illuminati sanno che è solo questione di tempo prima che si sia in grado di attribuire impatti ambientali specifici ad azioni lungo le filiere industriali. E anche se l’architettura dei trattati ha separato il problema del clima da quello della biodiversità sin dagli accordi del 1992, tutti si rendono conto che i due problemi sono intimamente connessi. Un quarto delle emissioni antropiche ha a che fare con l’uso del territorio, e l’installazione di rinnovabili richiede una gestione attenta dei loro impatti sugli ecosistemi. 

 
Le compagnie più avanzate hanno già capito dove si sta andando e sono convinte di volerne anticipare la traiettoria. Molte industrie stanno perseguendo una forte accelerazione nel tracciamento degli impatti, e stanno crescendo le aspettative di investitori e finanzieri che ciò che si muove lungo filiere internazionali non porti con sé rischi di natura ambientale. L’Italia, paese con una forte vocazione all’esportazione, sarà coinvolta in questa trasformazione. Sarebbe un errore lasciarsi fare le regole da altri e rimanere indietro su una questione che potrebbe ridefinire come si fa industria nel mondo. 

 
La terza ragione che ci impone di fare attenzione a ciò che sta succedendo a Montréal è di natura geopolitica. La cosa che più distingue questo trattato internazionale rispetto al suo gemello sul clima è la mancanza della firma degli Stati Uniti. Nonostante gli americani contribuirono a scriverlo, nessun presidente americano ha mai chiesto al senato di ratificarlo, da quando Bush padre rinunciò alla ratifica nel tentativo di consolidare il sostegno repubblicano durante la campagna elettorale contro Bill Clinton. 

 
Questa assenza ha lasciato il campo aperto alla Cina, un paese che ha addirittura fatto una riforma costituzionale nel 2012 per dichiararsi “civiltà ecologica.” Non ci si deve fare illusioni: in quella dicitura c’è tutto il peso del marxismo ecologico che andava di moda in occidente negli anni Settanta e ben poco della scienza degli ecosistemi che dovrebbe guidare la conservazione della biodiversità. Ma questo posizionamento è molto di più di un banale “green washing.” 

 
Quando Xi Jinping si presentò per la prima volta a Davos nel gennaio del 2017 – Trump era appena stato eletto – fece un discorso in plenaria dove dichiarò che il suo paese era pronto a indossare il mantello verde e a guidare il mondo. La Cina moderna rappresenta un modello di sviluppo economico radicato nella trasformazione del territorio, a partire dalla transizione energetica, che la Cina ha sostenuto con enormi investimenti in solare ed eolico. Questo è una nazione che trasforma il paesaggio in funzione del proprio sviluppo,  ridefinendo in termini industriali anche il proprio rapporto con la natura.

 
Alle dichiarazioni del presidente cinese a Davos, seguì un’accelerazione sulla “Belt & Road Initiative”, il progetto di espansione economica cinese mirato ad influenzare i paesi in via di sviluppo. La seconda economia del mondo ha un modello economico e sociale in mente per il proprio futuro e per tutti coloro che vorranno seguirla. Sarebbe un errore sottovalutarne l’impatto. La Cina è il principale promotore del congresso di Montréal.


Indipendentemente dai dettagli delle decisioni prese in Canada, ciò che sta succedendo attorno a questo evento va osservato con grande attenzione. Tra termini scientifici fumosi e implorazioni pittoresche, si sta delineando il nostro futuro su questo pianeta.

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