(foto EPA)

Dopo il Mondiale il Qatar è il vero campione del mondo

Claudio Cerasa

I soldi del Qatar sono un orrore, quando si parla di mazzette, ma lo sono anche quando si parla di affari? La finale tra Messi e Mbappé, qatarini del Psg, costringe a domande non scontate. Business sì, ma non as usual

Business sì. Ma non as usual. Nelle stesse drammatiche ore in cui gli osservatori di tutto il mondo, e in particolare quelli europei, si chiedono giustamente quanto siano tossici e quanto puzzino i soldi che arrivano dal Qatar, i tifosi di tutto il mondo si preparano a porsi una domanda non meno drammatica, anche se di segno opposto, che diventerà probabilmente inevitabile domenica prossima, quando durante la finale dei Mondiali, tra Argentina e Francia, tra gli appassionati di calcio – anche quelli europei – si domanderanno inevitabilmente, osservando le gesta di Kylian Mbappé e Lionel Messi, perché loro sì e noi no.

La domanda, naturalmente, non riguarda la fortuna, per i francesi e gli argentini, di avere le proprie squadre in finale, nelle stesse ore in cui la più importante partita da disputare da squadre italiane sarà Catanzaro-Potenza, ma riguarda la fortuna, per i tifosi di una squadra di una grande città europea, il Paris Saint-Germain di avere investitori così ricchi da potersi permettere di avere in squadra i due giocatori più importanti che disputeranno la finale in Qatar: ovviamente Messi e Mbappé. E probabilmente, gli stessi tifosi che oggi si indignano per le immagini orrende delle valigette brussellesi piene di soldi probabilmente provenienti dal Qatar, domenica si chiederanno perché loro sì, i parigini sì, e le loro squadre no. Avete forse capito dove vogliamo arrivare: quale tifoso del mondo, oggi, non vorrebbe avere la sua squadra del cuore carica di soldi a tal punto da potersi permettere, come fa il Paris Saint-Germain guidato da Nasser Al Khelaïfi, presidente del fondo sovrano Qatar Investment Authority, contemporaneamente Messi e Mbappé, oltre che Hakimi e Neymar? E, detta in modo più chiaro, c’è un qualche tifoso al mondo che si indignerebbe se la propria squadra venisse legalmente riempita di soldi provenienti dal Qatar?

 

La risposta a questa domanda ci costringe a spostare la nostra attenzione da Doha, dai Mondiali di calcio, e di riportare i nostri ragionamenti più vicini al contesto che ruota attorno alla nostra quotidianità, al nostro Catanzaro-Potenza, gran partita tra l’altro, e il ragionamento che vale la pena porsi, senza perdere di vista lo scandalo delle  mazzette europee, è il seguente: concordiamo tutti sul fatto che le tangenti del Qatar siano uno scandalo assoluto, ma concordiamo tutti sul fatto che in un mercato globale, fatto di grandi rivalità, di grandi competizioni, i soldi provenienti dalle democrazie imperfette e anche dai regimi non democratici non siano necessariamente soldi che puzzano come le tangenti? La risposta a questa domanda è ovviamente meno scontata di quella di prima, tutti vorremmo avere Messi e Mbappé nel nostro Catanzaro pagato con i soldi del Qatar non tutti vorremmo avere i soldi del Qatar utilizzati per comprare qualche gioiello industriale italiano, ma ragionare attorno a questa domanda è essenziale per capire in che modo i nostri paesi, e la nostra Europa, potranno governare una stagione futura all’interno della quale vivere di solo friendshoring, fare affari solo con i paesi simili ai nostri, verosimilmente non sarà possibile. E dunque, come si fa? Rispondere non è semplice, ovvio, ma una regola potrebbe essere individuata, considerando l’impossibilità strategica di portare avanti una diplomazia economica impostata sui rapporti commerciali solo con i paesi buoni, diplomazia che imporrebbe di rompere i rapporti con la maggior parte dei paesi del mondo. E la regola, brutale, dovrebbe e potrebbe essere questa: non aver paura di prendere i soldi dai paesi con un pedigree non troppo diverso da quello delle canaglie e non aver contemporaneamente paura però di perdere quei soldi.

Fare affari, sì, utilizzare i soldi dei paesi non democratici per accrescere il nostro benessere, sì, e anche eventualmente il loro gas, ma con giudizio, ovvio, senza far diventare un accordo tra stati una scusa per chiudere gli occhi sugli abusi commessi nel nostro paese (per esempio la polizia cinese che usa metodi cinesi in Italia) e senza timore di intervenire in modo brusco, anche dal punto di vista diplomatico, sospendendo quando è necessario i dialoghi ad alti livelli, convocando eventualmente gli ambasciatori dei paesi violenti e utilizzando quando necessario l’arma delle sanzioni. Ha scritto l’Economist, un mese fa, in un editoriale sorprendente in cui ha scelto di difendere i Mondiali in Qatar, che il mondo pallonaro avrà sempre paesi ricchi, disposti a spendere soldi che altri paesi non hanno, ma il problema di fronte a questi soldi non è se utilizzarli o no ma è avere a disposizione autorità sportive in grado di difendere il proprio universo da indebite influenze. Vale nei rapporti del interni al calcio, vale nei rapporti interni agli stati, vale nei rapporti interni ai privati. La regola dovrebbe essere quella e dovrebbe essere chiara. Business sì, d’accordo, con giudizio, ma in caso di sgarro uscire dalla logica dell’as usual ricordandosi che prendere legalmente soldi da paesi pericolosi avendo paura di perderli è un modo come un altro per mostrarsi incapaci di fare quello che anche l’Europa oggi dovrà dimostrare di voler fare: difendere con tutte le forze il proprio universo da indebite influenze. 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.