La commemorazione per l'anniversario dell'Holomodor nel 2021 (Ansa)

L'intervista

“Riconoscere l'Holodomor come genocidio vuol dire proteggere l'Ucraina”. Parla Flores

Luciano Capone

"La Grande carestia del 1932-33 venne pilotata dall'Urss di Stalin per colpire il gruppo nazionale ucraino. Il riconoscimento è centrale nell’identità di un popolo e in genere viene chiesto quando c’è qualcuno che lo nega, come la Russia", dice lo storico dei Diritti umani Marcello Flores

L'ultimo sabato di novembre si ricorda il novantesimo anniversario dell’Holodomor, lo “sterminio per fame” attuato in Ucraina dall’Unione Sovietica di Stalin. Il più grande massacro del Novecento dopo la Shoah: una carestia artificiale che, in pochi mesi a cavallo tra il 1932 e il 1933, ha prodotto circa 4 milioni di morti. Di fame. Si tratta di una tragedia a lungo nascosta, quasi rimossa, soprattutto dall’élite culturale occidentale, che ha iniziato a essere studiata e portata all’attenzione pubblica solo a partire dagli anni Ottanta. Con l’indipendenza dell’Ucraina, dopo il crollo dell’Urss, l’Holodomor è diventato un elemento fondante dell’identità nazionale ucraina, un po’ come la Shoah per lo stato di Israele. Per l’Ucraina l’Holodomor è stato un genocidio, e si batte perché venga riconosciuto come tale dagli altri paesi.

 

Di sicuro lo è stato per Raphael Lemkin, il giurista ebreo-polacco che ha coniato il concetto di “genocidio”, poi codificato dalle Nazioni Unite: “Questo non è semplicemente un caso di omicidio di massa. E’ un caso di genocidio, di distruzione, non solo di individui, ma di una cultura e di una nazione”, disse Lemkin in un discorso durante una commemorazione della Grande carestia ucraina a New York nel 1953.

 

Ma cos’è un genocidio? “In senso molto generale è la distruzione di un gruppo umano – dice al Foglio Marcello Flores, storico dei Diritti umani e autore del libro “Il genocidio” (il Mulino) –. Ma se facciamo riferimento alla Convenzione sul genocidio approvata dalle Nazioni Unite, che si basa sulle riflessioni di Lemkin, dobbiamo guardare ad alcuni caratteri specifici. Perché di distruzioni di gruppi sociali ne abbiamo avute tante nella storia, dalla conquista spagnola nel Cinquecento allo sterminio dei nativi d’America nell’Ottocento fino a quello degli aborigeni in Australia. Per la Convenzione, che è il frutto di un compromesso politico, il gruppo sociale a cui si fa riferimento è etno-nazionale o religioso. L’altro elemento, che è poi quello determinante, è l’intenzione, nel senso che la distruzione del gruppo deve essere frutto di una volontà specifica e non la conseguenza di altri obiettivi”.

 

Considerando questi parametri, rispetto al riconoscimento dell’Holodomor come genocidio, cosa che hanno fatto diversi paesi e che è stata tentata senza successo anche in Italia, si sollevano due obiezioni. La prima è che Stalin non volesse colpire gli ucraini in quanto gruppo nazionale, ma la classe sociale dei contadini, e l’altra è che la Grande carestia ucraina non fu provocata deliberatamente ma fu la conseguenza di politiche sbagliate di collettivizzazione. “C’è stata a lungo discussione su questo, ma ormai la maggioranza dei giuristi e degli storici ritiene che questi due elementi ci fossero”, risponde Flores. “Da una parte c’era la battaglia contro i kulaki e i contadini, ma in aggiunta c’era la volontà di colpire il gruppo nazionale ucraino, con cui i bolscevichi avevano i conti in sospeso dalla guerra del 1919-20. L’intenzione di Stalin era di colpire il gruppo per sistemare una volta per tutte la questione: furono colpiti tutti i maestri ucraini, molti dei dirigenti del Partito comunista ucraino, l’élite nazionale. L’altro aspetto è che in Ucraina la carestia venne pilotata per colpire la popolazione. Tant’è vero che furono più rigide le misure repressive e più rigida la requisizione del grano, con l’impossibilità di tenersi anche una manciata di grano o di farina e il divieto assoluto di spostamento interno verso le città. Tutto il grano dell’Ucraina veniva sottratto e principalmente venduto all’estero pur sapendo che la popolazione sarebbe morta di fame. Su questo abbiamo tutta una serie di documenti, di telegrammi, di lettere che fanno capire chiaramente quale fosse l’intenzione di Stalin e degli altri dirigenti”.

 

Il genocidio è tornato anche in questa guerra, con Putin che l’ha evocato per giustificare il suo intervento in difesa dei russofoni del Donbas a suo dire massacrati dall’Ucraina. “L’uso che ne ha fatto Putin è stato immediatamente sconfessato dalla Corte internazionale di Giustizia, già a metà marzo con una decisione su richiesta dell’Ucraina che voleva difendere il proprio buon nome: non c’era alcun genocidio o tentativo di genocidio da parte dell’Ucraina, è stata usata una giustificazione falsa e menzognera per l’invasione”. Dall’altro lato anche l’Ucraina evoca il tentativo genocidario da parte della Russia, visto che Putin nega l’esistenza della nazione e dell’identità ucraine e per la sua strategia militare di massacri e di distruzione di obiettivi civili. “Certamente non credo che si possa dire, come fa Zelensky, che Putin stia commettendo un genocidio in Ucraina. Penso, ma è un’opinione personale, che alla fine si individueranno alcuni casi specifici come atti di genocidio, ad esempio Bucha potrebbe essere considerato tale dopo un accertamento come avvenuto per Srebrenica. In Bosnia non c’era stato un genocidio, ma nell’occasione circoscritta di Srebrenica sì”.

 

Dopo l’invasione di Putin, anche in Italia si è parlato di riconoscere l’Holodomor come genocidio. Ma a cosa serve? Non è materia che spetta agli storici? “Serve da una parte per portare all’attenzione internazionale un crimine che, per quanto passato, pensiamo a quello degli armeni che è più lontano, è centrale nell’identità di un popolo. Ma soprattutto, in genere, si chiede un riconoscimento quando c’è qualcuno che lo nega. Nel caso degli armeni è la Turchia. Nel caso degli ucraini è la Russia. Il riconoscimento risponde quindi a una logica di tipo politico, che però serve anche per rafforzare un’identità culturale e memoriale della collettività che è stata colpita. In questo senso, riconoscere vuol dire anche proteggere”.

 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali