Guerra ai curdi

Nel Kurdistan iraniano la protesta si è trasformata in una guerra

Cecilia Sala

Un hotel 4 stelle e un conto in sospeso nella città di Mahabad. I manifestanti conquistano pure le moschee, Teheran li bombarda

Quando a settembre sono cominciate le proteste per la morte di Mahsa Amini, l’aeronautica militare iraniana ha spostato degli aerei caccia in Kurdistan. Il messaggio era: se, almeno all’inizio, tollereremo le manifestazioni nelle grandi città (con alcuni esponenti del regime che condannavano le azioni della polizia religiosa in pubblico e il presidente che annunciava un’indagine minuziosa), con voi siamo pronti da subito a fare la guerra. Nella notte fra domenica e lunedì c’è stato un attacco con missili balistici e droni suicidi contro le montagne al confine tra l’Iraq e l’Iran che attraversano le zone curde dei due paesi. La città iraniana di Mahabad, che ha 300 mila abitanti e si trova a meno di due ore di auto da quelle montagne, adesso è una zona di guerra con i carri armati nella piazza centrale mentre in cielo ci sono gli elicotteri militari e dei droni identici ad alcuni di quelli che la Repubblica islamica ha venduto a Putin. Gli abitanti conoscono già le tecniche della guerriglia perché si preparano a questo momento da sette anni e in particolare da quando, nel 2015, l’unico albergo a quattro stelle della città puntava a ottenere la quinta e aveva bisogno dell’approvazione dei pasdaran. 


Così l’hotel Tara aveva invitato una delegazione di Guardiani della rivoluzione e l’aveva ospitata  nelle sue suite al quarto piano. Il giorno dopo, dalla finestra di una di quelle camere di lusso precipita Farinaz Khosravani, una ragazza curda di 25 anni che rifaceva le stanze al Tara. La protesta non comincia subito: un gruppo studia la piantina della struttura e i punti in cui i cavi elettrici la attraversano, poi dà fuoco all’albergo in modo oculato per causare il peggior danno possibile. Tra i ragazzi autori del rogo ci sono quelli che racconteranno che Farinaz era stata spinta giù dalla finestra all’ennesimo rifiuto di fare sesso con un pasdaran. Cominciano le manifestazioni di piazza più aggressive dai tempi della dissoluzione della Repubblica di Mahabad, una fase breve nella storia recente in cui i curdi iraniani hanno avuto un loro posto e una provvisoria indipendenza durata da gennaio a dicembre  1946. 

 

Le più aggressive da allora, e fino al 27 ottobre 2022. Ventiquattro ore prima c’era stato un lungo corteo su viale  Taleghani Gharbi per il quarantesimo giorno dalla morte di Mahsa Amini durante il quale la polizia aveva ammazzato un giovane leader locale, Ismail Mowludi. Anche in questo caso la reazione dei manifestanti non è stata immediata, prima bisognava seppellirlo e in un contesto dignitoso, senza il caos attorno. La mattina dopo comincia la vendetta e i compagni di Ismail prendono d’assalto il palazzo del governatore della provincia e del sindaco: appiccano un incendio e si filmano con il fuoco alle spalle, gridando uno slogan che in quella porzione a nord-ovest del paese è più popolare di “Donna, vità, libertà”, cioè: “Il Kurdistan è la tomba dei fascisti”. E poi, anche: “In memoria di Farinaz Khosravani”. 


Domenica c’è stata una nuova escalation. Sono arrivati gli elicotteri  che, insieme ai droni con le telecamere sensibili per il rilevamento termico gestiti dall’intelligence di Teheran, passano le coordinate e i movimenti dei ribelli ai pasdaran in tempo reale. I militari, prima di entrare, hanno messo al buio la città: hanno staccato l’elettricità, la connessione internet e la rete telefonica. I manifestanti hanno continuato a comportarsi come se non si fossero accorti  dell’arrivo dell’esercito. Domenica sera c’erano ancora  le barricate da cui sbucavano le molotov tenute in mano da ragazze e ragazzi con il passamontagna o la kefiah tirata fino sopra al naso e delle pentole rovesciate in testa usate come elmetti artigianali. Hanno assaltato la casa del capo di una milizia locale che si chiama Mangour, hanno preso la biancheria di sua moglie e l’hanno sventolata in aria filmandosi con lo smartphone. Sono arrivati i carri armati e le truppe, camminando per la strada, sparavano proiettili veri dentro le finestre delle case dove sanno, o sospettano, che vivano i capi dei manifestanti. Gli eredi  di quei leader curdi che, negli anni ottanta e novanta, erano dovuti fuggire in Europa ma poi erano comunque finiti vittime degli omicidi mirati   organizzati fuori dai confini dai Guardiani.


La guerra da Mahabad è arrivata a una città più piccola e vicina, Sardasht, dove i  ribelli hanno preso il controllo della moschea e ieri cantavano i cori della protesta dall’altoparlante del minareto. A Javanrud e Piranshahr, che è proprio ai piedi di qulle montagne che segnano il confine con l’Iraq, è in corso un massacro di manifestanti con armi e proiettili veri. 
I curdi iraniani che sono andati a imparare a combattere sulle montagne, a casa dei  curdi iracheni, adesso implorano  le loro armi in regalo per poter tornare a casa a fare la rivoluzione, o provarci. Qualche fucile a Mahabad si è già visto, ma oggi i curdi iracheni hanno altri problemi a cui pensare e per il momento la risposta ufficiale è: non tornerete in Iran né con i nostri consigli né con i nostri kalashnikov.

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