Avevano ragione i neoconservatori americani
Il Progetto per un nuovo secolo americano, assicurare al mondo una “benevolente egemonia” grazie alla forza, era del 1997. Ma in 25 anni è stato tradito più volte dall’occidente. E ora ci sono Putin e Xi
Avevano ragione i neoconservatori americani? Nel 1997 fu fondato, da William Kristol e Robert Kagan, il Pnac, un think tank chiamato Progetto per un nuovo secolo americano. L’idea trainante era che nel nostro secolo, il XXI, gli Stati Uniti avrebbero dovuto dispiegare tutta la loro forza militare, diplomatica, economica per assicurare agli americani e al mondo una “benevolente egemonia” del sistema di libertà e democrazia uscito vincitore dalla Guerra fredda dei decenni precedenti, a partire dal discorso di Fulton di Winston Churchill, il 5 marzo del 1946 (“Una cortina di ferro è calata sull’Europa”). Da allora è passato un quarto di secolo e, se grande è il disordine sotto il cielo, come diceva il presidente Mao, la situazione è tutt’altro che eccellente.
Qualche riferimento è necessario. Quando esordì la lobby neocon, mancavano quattro anni alla Pearl Harbor da loro prevista e temuta, che poi si rivelò essere il bombardamento jihadista di New York e di Washington dell’11 settembre 2001. Il motore propulsivo dell’instabilità strategica del mondo era il cosiddetto medio oriente allargato, investito nel 1979 dalla rivoluzione khomeinista in Iran. Nel 1981, agli inizi della lunga guerra tra Iraq e Iran (1980-1988), gli israeliani avevano distrutto il reattore nucleare Osirak, ceduto a Saddam dalla Francia. Nel 1991 c’era stata la guerra del Golfo contro Saddam Hussein che aveva invaso il Kuwait, condotta da George Bush Sr. e da un’ampia coalizione battezzata dall’Onu. Nel 1996 i talebani avevano instaurato il loro regime teocratico a Kabul, e Bin Laden si era insediato nel paese. I neoconservatori, che avevano radici limitate ma importanti nell’Amministrazione Reagan degli anni Ottanta, e poi esercitarono una influenza sempre maggiore nella prima Amministrazione di Bush Jr. tra il 2000 e il 2004, criticavano il “lassismo” della politica estera e militare di Bill Clinton negli anni Novanta e, critici del risultato parziale della Guerra del Golfo (Saddam era stato sconfitto ma non era caduto, Bush si era fermato dopo la liberazione dei territori occupati senza procedere verso Baghdad), spingevano, prima dell’11 settembre, per la riscrittura armata della mappa del medio oriente (la famosa esportazione della democrazia, il regime change) e per una nuova concezione euroamericana dell’atlantismo, non più segnata dall’equilibrio multilaterale ma da un tratto di unilateralismo guidato dagli Usa. Le guerre successive all’11 settembre (Iraq e Afghanistan) sfociarono in un duraturo ma instabile regime di compromesso a Baghdad, dove un’accanita resistenza armata e la divisione occidentale misero in difficoltà le truppe americane e il profilo strategico dell’offensiva, e in un lungo, contrastato regime di occupazione a Kabul terminato nell’agosto dell’anno scorso con il ritorno al potere dei talebani e la fuga occidentale dal paese. A dimostrazione che la democrazia forse non si esporta, ma a desistere si importano l’autocrazia e la teocrazia.
Durante gli anni della presidenza Obama, multilateralismo dispiegato e tattica del leading from behind ovvero ripiegamento strategico, i neoconservatori del Pnac si sono dispersi e la fase con cui si erano identificati almeno fino al secondo mandato di Bush Jr. (2004-2008) e alle dimissioni di Donald Rumsfeld dal Pentagono (Rumsfeld era tra i firmatari del manifesto neocon del Pnac) è entrata nel cono d’ombra della politica internazionale. Le esecuzioni sommarie di Bin Laden (Obama), Al Zawahiri (Biden) e del generale iraniano Suleimani (Trump) sono state una coda di giustizia vendicativa, non l’espressione di una strategia di attacco, finita con l’Amministrazione Bush Jr. dopo un secondo mandato di ripiegamento.
Ora la situazione internazionale sembra dare ragione postuma ai neocon, che volevano un occidente unito e all’offensiva per la difesa del sistema liberale sotto l’egida americana. Biden ha dovuto forzatamente prendere la guida di un polo occidentale, altro che leading from behind, imponendo un contenuto unilaterale al rinnovo dell’alleanza con l’Europa, investita dalla bufera bellica e dai suoi modi ibridi, evidenti con la crisi e il ricatto energetici a cui l’ha esposta la benevolente egemonia del commercio internazionale di gas e petrolio.
Putin, il cui potere data dal 2000 e come si dice “va col secolo”, ha notoriamente esteso negli anni di Obama la sua influenza politica e militare nel Caucaso, in Siria, in Libia, in Africa, fino all’invasione dell’Ucraina in corso, dopo l’annessione della Crimea. Dal discorso di Monaco del 2007 ha impostato un revanscismo postsovietico con tratti di più tradizionale imperialismo zarista, fondato su un’ideologia euroasiatica nemica dell’equilibrio delle forze in Europa. Ha cercato di fare del nostro tempo un nuovo secolo panrusso, altro che Pnac. Il ruolo di guida degli Stati Uniti nella ripolarizzazione dell’occidente, ma sulla difensiva, nasce sulle rovine della politica estera di Obama e di Trump (al quale Putin regalò perfino un beffardo pallone). Questo ruolo obbligato è reso credibile dal miracolo della resistenza e controffensiva dell’Ucraina, che smentisce in parte la diagnosi famosa di Bob Kagan, il neoconservatore che descrisse gli americani come il popolo di Marte e gli europei come il popolo di Venere (fu il Foglio a popolarizzare le sue tesi in Italia, pubblicando il suo saggio). Ma a dirla tutta siamo in un momento in cui gli analisti si interrogano, come intorno a un’eventualità quasi banale, su quale tipo di armi nucleari tattiche saranno, e quando, impiegate sul fronte europeo dai russi. Intanto la Cina lavora sul tempo lungo ambiguo che le è proprio, ma il regime di Xi, che va eternizzandosi e alterna risultati eccezionali a sintomi di crisi nell’economia, nella tecnologia e nel riarmo strategico, non si è disallineato dall’asse con Mosca, con un occhio tra l’altro a Taiwan. A coronamento, la Corea del nord, altra bestia nera dei neocon, spedisce missili che sfiorano il Giappone e prepara nuovi esperimenti dimostrativi nucleari. I venticinque anni che ci separano dalla formalizzazione del progetto neoconservatore dimostrano che l’occidente ha respinto il piano A dell’egemonia americana benevola in una strategia di attacco sui molti fronti del potere mondiale, ma forse non aveva un piano B.
la sconfitta del dittatore