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dal washington post

Nelle piazze d'Iran c'è un messaggio molto chiaro all'occidente 

Non basta contrastare le aspirazioni distruttive del regime della Repubblica islamica, che ora pare più fragile di come fossero Egitto e Tunisia nel 2010. Serve sostenere le aspirazioni liberali del popolo che in questi giorni si ribella 

La morte in Iran della ventiduenne Mahsa Aminipicchiata dopo essere stata trattenuta dalla polizia morale perché mostrava troppi capelli – ha scatenato proteste in tutto il paese, guidate dalle nipoti della nazione contro i nonni che hanno governato per oltre quattro decenni. E’ prematuro valutare se queste proteste cambieranno in modo significativo la politica iraniana o se sono semplicemente un’altra crepa di un regime in decomposizione la cui unica diversity è il fatto che le barbe e i turbanti degli uomini al potere siano bianchi o neri. Tuttavia, una conclusione può già essere tratta: la morte di Amini e la risposta della società iraniana dovrebbero modificare in modo permanente il modo in cui il mondo esterno interagisce con i funzionari iraniani. E questo cambiamento di consapevolezza dovrebbe includere anche una rivalutazione fondamentale della politica sull’Iran da parte dell’Amministrazione Biden.


Il caso di Amini non è isolato. Secondo i gruppi per i diritti umani, ogni anno milioni di donne vengono fermate e molestate in Iran per “hijab improprio” e numerose donne  scontano pene detentive a due cifre per essersi rifiutate di velarsi. Questo sistema di violenza istituzionalizzata ha poco a che fare con le presunte tradizioni religiose iraniane; le norme culturali autentiche non hanno bisogno di essere imposte con le minacce di uno stato di polizia. L’hijab obbligatorio è uno dei tre pilastri ideologici della teocrazia iraniana, assieme a “Morte all’America” e “Morte a Israele”.


Questo contribuisce a spiegare perché il regime è così restio ad adottare una linea più morbida sui codici di abbigliamento. La Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, è chiaramente convinto che scendere a compromessi sui pilastri ideologici del regime – compreso l’hijab – non farà altro che accelerarne il crollo. “Se vogliamo evitare che la nostra società sprofondi nella corruzione e nel disordine”, ha detto Khamenei, “dobbiamo tenere le donne in hijab”. E’ un prodotto della stessa mentalità che incolpa le vittime di violenza sessuale per essersi vestite in modo inappropriato. Tali opinioni antiquate non meritano alcuna deferenza, che vengano espresse dal Texas, da Tokyo o da Teheran.


La settimana della morte di Amini, la corrispondente di Cbs News Lesley Stahl ha intervistato il presidente della linea dura Ebrahim Raisi, che ha prevedibilmente sollevato dubbi sull’Olocausto e ha negato il suo ruolo ben documentato di giudice che ha condannato a morte per impiccagione migliaia di dissidenti nell’estate del 1988. Stahl ha indossato il velo e ha ammesso: “Mi è stato detto come vestirmi, di non sedermi prima di lui e di non interromperlo”. Queste regole di ingaggio non dovrebbero più essere accettabili. Christiane Amanpour della Cnn ha ottenuto un’intervista con Raisi a New York, ma quando si è rifiutata di indossare l’hijab, lui non si è presentato. La posizione di Amanpour è stata la risposta giusta: ora altri dovrebbero seguirne l’esempio. La storia ha dimostrato che l’Iran scende a compromessi soltanto quando si trova di fronte a un fronte internazionale unito. I governi stranieri, le agenzie di stampa internazionali e le organizzazioni non governative dovrebbero smettere di legittimare la discriminazione nella Repubblica islamica.


Sebbene Teheran abbia talvolta ceduto alle pressioni esterne, nei suoi 43 anni di storia la reazione della Repubblica islamica alle crisi interne è stata quella di raddoppiare la repressione. E’ questa brutalità che ha sostenuto il governo. Ma ci sono crescenti fratture nelle fondamenta, in un momento in cui il paese si prepara a una potenziale transizione di leadership a causa dell’incerto stato di salute dell’83enne Khamenei. Pure se sembra che le forze di sicurezza abbiano le cose sotto controllo, ci sono molti più segni di fragilità del regime in Iran oggi che in Egitto e Tunisia nel dicembre 2010, settimane prima che i loro governi fossero rovesciati.


I disordini innescati dalla morte di Amini dovrebbero spingere l’Amministrazione Biden a rivedere la propria strategia in Iran. Finora, la politica degli Stati Uniti nei confronti dell’Iran si è concentrata sul tentativo infruttuoso di rilanciare l’accordo nucleare del 2015, da cui il presidente Donald Trump è uscito nel 2018. Si tratta di una scelta miope. Finché i leader della Repubblica islamica – la cui identità si basa sull’opposizione agli Stati Uniti – governeranno l’Iran, Washington non sarà mai in grado di raggiungere un accordo con Teheran. Piuttosto che rispondere ai sintomi dell’ideologia iraniana, Washington – e l’occidente – devono concentrarsi sulla sua causa principale: il regime stesso. L’avvento di un governo iraniano rappresentativo che anteponga gli interessi nazionali del paese alla sua ideologia rivoluzionaria potrebbe cambiare le carte a livello geopolitico per gli Stati Uniti. 


Teheran ha un’enorme influenza in quattro capitali arabe – Damasco, Beirut, Baghdad e Sanaa – e ha fornito aiuti finanziari e militari alle dittature antiamericane di Caracas e Pyongyang. Il governo russo ha iniziato a utilizzare droni iraniani contro l’Ucraina. Le armi iraniane alimentano le guerre in Africa. In quasi tutte le guerre fredde o calde del mondo, Teheran si schiera contro gli Stati Uniti. Durante la Guerra fredda, gli Stati Uniti hanno negoziato accordi per il controllo degli armamenti con l’Unione sovietica anche mentre denunciavano l’“impero del male” e imploravano il leader sovietico Michail Gorbaciov di “abbattere questo muro”. E’ tempo che l’Amministrazione Biden allarghi la sua strategia per l’Iran non solo per contrastare le aspirazioni distruttive del regime iraniano, ma anche per sostenere le aspirazioni del popolo iraniano a vivere in una società libera e in pace con il mondo. La transizione dell’Iran dalla teocrazia alla democrazia non sarà facile, non sarà pacifica e non sarà subito. Ma è la chiave più importante per trasformare il medio oriente.

Karim Sadjadpour
senior fellow al Carnegie Endowment for International Peace

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