Foto di Joel Ryan, via AP, via LaPresse 

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Arriva il libro di Carrère, che ripercorre il processo del secolo al terrorismo islamico

Mauro Zanon

Lo scrittore francese ha mandato 7.800 battute ogni lunedì per nove mesi alla redazione seguendo passo passo le testimonianze dell'attacco al Bataclan e costruendo un racconto corale

Parigi. V13. Il processo del secolo al terrorismo islamico. V come venerdì, 13 come 13 novembre 2015, il giorno in cui Parigi fu attaccata dal commando jihadista di Salah Abdeslam, l’unico terrorista sopravvissuto di quella notte maledetta: 130 morti e 350 feriti tra il Bataclan, lo Stade de France e alcuni bistrot della capitale. V13 “come tutti, magistrati, avvocati e giornalisti chiamiamo questo mostruoso processo del 13 novembre nel quale siamo imbarcati”, scrive Emmanuel Carrère nell’omonimo libro in uscita per le edizioni Pol, che riunisce, con l’aggiunta di nuovi contenuti, i reportage curati dallo scrittore francese nella sala bunker del Palazzo di giustizia di Parigi e pubblicati sull’Obs a cadenza settimanale dal settembre 2021 al giugno 2022, quando ci fu il verdetto, perpétuité réelle, ergastolo senza sconti di pena a Abdeslam.

 

“Tra Violette Lazard, Mathieu Delahousse e Vincent Monnier, gli eccellenti specialisti del dossier V13 non mancavano certo all’Obs. Ma per aver uno sguardo un po’ diverso su questo evento di primo piano, che sarebbe stato estremamente mediatizzato, tutto nel cv di Carrère lasciava immaginare che questo freelance avrebbe completato bene la nostra squadra”, racconta Grégoire Leménager, vicedirettore del settimanale parigino e autore della postfazione di “V13”.

 

“Aveva scritto con ‘L’avversario’ la storia di un assassino fuori dal comune, che già praticava una specie di taqiya dissimulando alla sua famiglia una parte considerevole della sua esistenza. Aveva saputo evocare il dolore della morte in ‘Vite che non sono la mia’. Aveva esaminato ne ‘Il regno’ alcune cause della radicalizzazione religiosa. Aveva appena adattato al cinema ‘Le quai de Ouistreham’ di Florence Aubenas che a sua volta racconta, se si riflette bene, una storia di taqiya”, scrive Grégoire Leménager, spiegando la scelta del romanziere che aveva già fatto diverse incursioni nel giornalismo (come il reportage in Russia nel 2012, una specie di post scriptum al suo “Limonov”). 

 

Ogni lunedì, per nove mesi, Emmanuel Carrère ha mandato 7.800 battute alla redazione dell’Obs, raccontando il susseguirsi atroce delle testimonianze nel primo mese di processo, “l’immensa psicoterapia di queste cinque settimane che si sono appena concluse ha avuto la bellezza di un racconto collettivo e la crudeltà di un casting”; le vittime, anzi gli “eroi”, per “il coraggio di cui hanno avuto bisogno per ricostruirsi, per il modo di vivere questa esperienza, per la potenza del legame con i morti e i vivi”; i carnefici, a partire da Salah Abdeslam, “faccia da schiaffi” e “starlette capricciosa”; il rapporto tra il bene e il male citando Simone Weil: “Essere pronti a morire per uccidere, essere pronti a morire per salvare: qual è il più grande mistero?”.

 

Il lungo racconto del processo, testimonianza letteraria di una tragedia collettiva, restituisce l’alternanza dei momenti di forte carica emotiva e i giorni pieni di rabbia e frustrazione da parte dei familiari delle vittime dinanzi al silenzio degli accusati. Una delle testimonianze più toccanti è quella di Aristide e Alice Barraud, fratello e sorella, gravemente feriti mentre erano seduti nel dehors del bistrot Le Petit Cambodge. “Ho cercato di capire perché dei giovani decidono di sparare contro altri giovani. Non l’ho ancora capito, forse non c’è nulla da capire”, testimonia Aristide in aula. Emmanuel Carrère osserva questi due ragazzi, in piedi, davanti ai giudici, nella loro immensa dignità. “Il nostro sguardo è rivolto verso di loro, Aristide e Alice – scrive Carrère – Le loro parole sono già un segno di giustizia”. 

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