Donald Trump durante il raid dell'Fbi a Mar-a-Lago (LaPresse) 

La vicenda Trump sarà la fine del trumpismo? Opinioni a confronto

Luciana Grosso

Processare l'ex presidente potrebbe essere una partita tanto necessaria quanto impossibile da vincere. E soprattutto potrebbe contribuire a radicalizzare ancora di più la sua popolarità

C’è una parola perfetta nel dizionario americano: “weaponize”. Significa prendere una cosa e trasformarla, in modo improprio, in un’arma. Secondo i repubblicani di tendenza trumpiana le inchieste che da mesi tormentano l’ex presidente Trump altro non sono che la trasformazione della giustizia, delle corti, delle inchieste (e anche dell’Fbi) in un giavellotto politico: l’arma con cui la sinistra americana sta provando a distruggere l’uomo che da sette anni l’ha messa nel sacco. Eppure, a guardare i sondaggi, sembra le inchieste contro Trump non scalfiscano l’opinione pubblica. Anzi: più le accuse verso Trump si fanno gravi, più il suo consenso si rafforza.

 

È per questo che se si chiede in giro e se si leggono i pareri degli analisti di politica americana, quel che si avverte è una grande cautela da parte dei democratici, consapevoli del fatto che da anni Trump non fa altro che vincere gran parte delle partite politiche. Dall’altro lato ci sono i repubblicani che, sin dal 2015, cercano di replicare il miracolo trumpiano – eppure hanno qualche reticenza a parlare con i media stranieri sulla faccenda Trump.

 

Il raid a Mar-a-Lago”, ha scritto sul suo blog il presidente del think thank conservatore Heritage Foundation, Kevin Roberts, “rappresenta un altro esempio del governo federale che utilizza come arma le forze dell’ordine per punire i nemici politici, mettere a tacere i critici e inviare un messaggio a coloro che considera nemici. L’amministrazione Biden e la palude di Washington stanno mettendo in chiaro che useranno tutto il potere dello stato per intimidire chiunque si metta sulla loro strada. Se pensano di poter trattare un ex presidente in questo modo, potete immaginare cosa pensano di poter fare all’americano medio”.

   

In area più moderata Matthew Continetti, senior fellow del liberista American Enterprise Institute, ha scritto sul Boston Globe che sebbene le indagini contro Trump possano sembrare un deterrente alla sua vittoria, “è più difficile stabilire in che modo un’incriminazione di Trump influirebbe sulla sua posizione all’interno del Gop”, scrive Continetti. “Potrebbe ispirare i repubblicani a cercare alternative. Ma potrebbe anche radunare la base del partito attorno a lui. Berlusconi e Netanyahu, due leader stranieri a cui Trump assomiglia, hanno sopportato anni di incriminazioni e processi. Molto probabilmente lo farà anche Trump”.

   
A tanta protervia repubblicana e trampiana fanno eco le analisi, estremamente caute, dei think thank di orientamento democratico che hanno risposto alle domande del Foglio: “C’è molto da investigare e da chiarire quando si parla di Donald Trump, ci sono state molte anomalie nella sua presidenza”, dice Chris Tuttle del Council on Foreign Relations, “ma credo che i democratici tendano a sovraccaricare di significati e di allarme qualsiasi cosa riguardi Trump. Hanno creato, a ragione o a torto, un mostro. E questo mostro, a ragione o a torto, è riuscito a raccontare se stesso come vittima, a essere percepito come vittima, e a trasmettere questa sensazione anche a tutti i suoi elettori e sostenitori, che si sentono perseguitati come lui e attraverso di lui e che, per questo, si sentono incaricati di difenderlo e proteggerlo”, dice Tuttle. “La mia opinione è che, ogni volta che c’è Trump di mezzo occorra farsi tutti una doccia fredda e limitarsi ai fatti e alle prove. Se le prove ci sono, è giusto che Trump sia incriminato. Se non ci sono bisogna lasciar perdere. Anche perché quel che è in gioco è molto più grande di Trump e delle sue faccende: stiamo parlando della credibilità stessa delle istituzioni, dei tribunali, della Giustizia.  Usarle, o dare l’impressione di usarle, per il proprio tornaconto politico o elettorale significa mettere in pericolo tanto quanto ha fatto Donald Trump”.

 

Il pericolo maggiore, infatti, è che, una volta arrivati a un processo, Trump possa essere assolto, e a quel punto, trasformare la sua assoluzione in una formidabile arma per colpire e distruggere non solo il debolissimo Partito democratico di Joe Biden, e magari l’intero assetto della giustizia e delle istituzioni americane. “Non si tratta solo di raccogliere prove sufficienti per accusare Trump di un crimine”, spiega al Foglio Patrick Eddington del think tank progressista Cato, “ma anche di riuscire a trovare una giuria che, una volta ascoltate le prove, condanni Trump all’unanimità. Una circostanza che, se un eventuale processo dovesse svolgersi in Florida, stato che da anni sostiene Trump, appare davvero improbabile”.

  

Quindi processare Trump potrebbe essere una partita tanto necessaria quanto impossibile da vincere, in ogni caso, comunque vada. E soprattutto potrebbe non incidere nemmeno un po’ sul voto né sulla popolarità di Trump. Anzi, se possibile, potrebbe contribuire a radicalizzarla ancora di più. “Lo scenario peggiore che riesco a immaginare è che in un futuro non troppo lontano un leader con la stessa agenda politica di Trump, ma più scaltro e accorto, possa prenderne il posto e riuscire a completarne il disegno”, continua Eddington. “Le persone, alla fine, non votano pensando a quello che Trump ha fatto o avrebbe potuto fare, ma pensando all’inflazione, ai prezzi della benzina, alla crisi Covid. E per questo, probabilmente, a novembre voteranno repubblicano e apriranno la strada a uno scenario piuttosto tetro, nel quale i repubblicani saranno portati a pensare che insistere sul trumpismo sia la strada giusta, e i democratici, invece, si convinceranno che il centrismo di Biden non paga e che occorre spostarsi a sinistra”. Si arriverebbe così a una destra e a una sinistra incapaci di parlarsi, a una frattura ancora più profonda nella politica americana, forse definitivamente irrimediabile.