prima puntata

Pianificare l'assalto al Campidoglio americano: l'inchiesta del Washington Post


Alcune settimane prima delle elezioni americane del 2020 iniziò la costruzione di “Stop the steal”, la grande campagna trumpiana per ribaltare Joe Biden. Il silenzio dell’Fbi e i suoi effetti ricostruiti nel lungo lavoro del quotidiano americano. Ecco la prima puntata 

Alla fine di ottobre, nel 2021, il Washington Post pubblicò una enorme inchiesta sui fatti del 6 gennaio, il giorno in cui i sostenitori dell’ex presidente Donald Trump assalirono il Campidoglio a Washington. “The attack” è il titolo dell’inchiesta che ha coinvolto molti giornalisti del quotidiano e che ha preso, all’inizio di quest’anno il premio Pulitzer: si basa su interviste a più di 230 persone e migliaia di pagine di atti giudiziari e rapporti interni delle autorità di pubblica sicurezza, oltre a centinaia di video, fotografie e registrazioni audio. Alcuni degli intervistati hanno parlato in forma anonima, altri no. Gran parte delle informazioni raccolte e pubblicate dal Washington Post sono servite alla commissione speciale del Congresso per articolare la propria indagine: le testimonianze sono andate in diretta tv negli ultimi mesi e molte delle ricostruzioni di queste pagine sono state ulteriormente verificate, circostanziate e confermate. Abbiamo deciso di pubblicare per intero questa inchiesta perché gli effetti del 6 gennaio sono ancora molto visibili nella politica americana. Non si tratta soltanto di effetti penali, che devono ancora essere valutati soprattutto per quel che riguarda il destino di Donald Trump. Sono gli effetti politici a essere molto rilevanti: l’assalto del 6 gennaio è il mito fondativo del post trumpismo, un movimento che è tutt’altro che minoritario nel Partito repubblicano, come dimostrano le selezioni in vista delle elezioni di metà mandato a novembre. E il Partito repubblicano non ha ancora fatto i conti con Trump e spesso sembra anzi non volerli fare. Anche per questo l’inchiesta del Washington Post continua ad avere una grande rilevanza. In queste pagine trovate la prima puntata: la preparazione dell’assalto.


 

Il capo dell’intelligence del dipartimento per la Sicurezza nazionale di Washington era sempre più disperato. Da giorni, Donell Harvin e i suoi collaboratori notavano segnali sempre più espliciti che indicavano che i sostenitori del presidente Donald Trump stavano programmando azioni violente in occasione della ratifica da parte del Congresso del voto del collegio elettorale, ma le autorità federali per la sicurezza non sembravano condividere tale preoccupazione. Sabato 2 gennaio, Harvin alzò il telefono per chiamare il suo collega a San Francisco, Mike Sena, svegliandolo prima dell’alba. Sena lo ascoltò preoccupato. Anche l’ufficio di intelligence della California del nord, di cui era a capo, era stato inondato di minacce a sfondo politico, segnalate dalle piattaforme social, molte delle quali riguardavano piani per ostacolare la seduta congiunta al Congresso, o un attacco ai parlamentari il 6 gennaio. Sena organizzò allora un’irrituale chiamata fra tutti gli uffici per la Sicurezza nazionale del paese – noti come centri informativi – per capire che informazioni stessero raccogliendo. Si aspettava una conversazione con una ventina di persone. Ma il numero dei partecipanti salì a 100. Poi a 200. E poi quasi 300. Si collegarono funzionari da tutte le 80 regioni, da New York a Guam.
 
Nei vent’anni trascorsi da quando erano stati istituiti i centri informativi nel paese, in risposta agli attentati dell’11 settembre del 2001, Sena non aveva mai visto nulla di simile. L’ora, la data e il luogo dell’allarme erano gli stessi: ore 13, Campidoglio, 6 gennaio. Harvin chiese ai suoi colleghi di condividere le informazioni che avevano raccolto. Nel giro di qualche minuto, cominciò ad arrivare una valanga di dati. Sedicenti gruppi paramilitari e altre formazioni estremiste del nord-est si scambiavano le radiofrequenze da usare vicino al Campidoglio. Nel Midwest, uomini con precedenti violenti discutevano di come arrivare a Washington armati.
 
Quarantotto ore prima dell’assalto, Harvin cominciò a far scattare ogni  campanello d’allarme possibile. Invitò l’Fbi, il dipartimento di Sicurezza nazionale, i servizi di intelligence militari e altre agenzie a esaminare in tempo reale le informazioni che stava raccogliendo la sua squadra. Fece anche un altro passo radicale: chiese al dipartimento sanitario della città di convocare tutti gli ospedali della zona di Washington invitandoli a prepararsi a incidenti di massa. Svuotate i pronti soccorsi, disse loro, e fate scorte di sangue. Harvin fu uno dei molti, all’interno e al di fuori del governo, che avvisarono le autorità della minaccia sempre più plausibile di azioni violente mortali il 6 gennaio.   


 Uno dei segnali più macroscopici era arrivato con la chiamata di un informatore all’Fbi il pomeriggio del 20 dicembre: i sostenitori di Trump stavano discutendo online su come portare di nascosto armi a Washington per “sopraffare” la polizia e arrestare i membri del Congresso a gennaio, in base ad alcuni documenti interni dell’Fbi ottenuti dal Washington Post. L’informatore forniva dettagli precisi: chi progettava l’azione violenta era convinto di aver ricevuto “ordini dal presidente”, usava parole in codice come “piccone” per indicare le armi e forniva tempi e luoghi, rivelando la posizione di quattro punti nel paese dove si sarebbero dati appuntamento in camper il giorno prima della seduta congiunta al Congresso. Su un sito, si indicava esplicitamente il senatore Mitt Romney, repubblicano dello Utah, come obiettivo. Un funzionario dell’Fbi che vagliò la segnalazione osservò che l’ufficio reati per cui lavorava aveva ricevuto un “numero significativo” di avvisi di minacce al Congresso e ad altri funzionari governativi. L’Fbi inoltrò l’informazione alle autorità della pubblica sicurezza a Washington senza approfondire ulteriormente. “L’individuo o il gruppo identificato in fase di analisi non richiede al momento ulteriori indagini da parte dell’Fbi”, era la conclusione a cui giungeva il rapporto interno.
 
La paralisi che portò a uno dei più grandi fallimenti in materia di sicurezza nella storia americana fu causata da specifiche falle all’interno di ogni agenzia, ed esacerbata dalla natura frammentaria del sistema di sicurezza di una città dove le responsabilità sono suddivise tra autorità locali e federali. Il governo degli Stati Uniti si è impegnato allo stremo per scongiurare nuovi attentati terroristici dopo l’11 settembre, ma le diverse agenzie non sono riuscite a sfruttare efficacemente l’infrastruttura di vigilanza e intelligence allestita sulla scia degli attentati terroristici di matrice islamica per monitorare le minacce interne. Di certo i funzionari dell’intelligence non avrebbero mai immaginato un attacco di massa contro il governo istigato dal presidente in carica.  Eppure, Trump è stato la forza trainante in ogni momento, mentre orchestrava quello che sarebbe diventato un tentativo di golpe politico nei mesi che precedettero il 6 gennaio, chiamando a raccolta i suoi sostenitori a Washington, spronando una folla violenta a marciare sul Campidoglio e paralizzando organismi chiave il cui compito era quello di indagare sulle minacce alla sicurezza nazionale, e fermarle.
 
Per mesi il presidente aveva preparato il terreno, facendo credere ai suoi sostenitori che le elezioni erano state truccate, che era lui il legittimo vincitore e che la vittoria di Joe Biden era illegale, il risultato di un complotto da parte dei democratici e dei media. Per tutto l’autunno e l’inverno, Trump aveva fatto pressione sui funzionari pubblici in stati come la Georgia e l’Arizona tempestandoli di tweet e telefonate, nel tentativo di far annullare i risultati delle elezioni.
 
Quando i suoi tentativi fallirono, si concentrò sul 6 gennaio, tradizionalmente un rito pro forma da parte del Congresso. Le sue parole hanno spronato la rapida azione dei sostenitori furiosi, che hanno così pianificato di convergere sulla capitale del paese. Venite a Washington, twittò Trump ai suoi simpatizzanti il sabato prima di Natale, lanciando un chiaro appello a riunirsi e protestare il 6 gennaio: “Venite, ci scateneremo!”. Loro risposero immediatamente sul forum pro Trump TheDonald.win in un thread dal titolo: “TWEET TRUMP. PAPÀ DICE DI ANDARE A WASHINGTON IL 6 GENNAIO”.  
Era la prima volta, dal giorno delle elezioni, che il presidente esortava i suoi sostenitori ad andare a Washington per protestare. Il suo messaggio iniziò subito a modificare il panorama dell’intelligence: il volume dei messaggi di minacce relativi al 6 gennaio aumentava di ora in ora. Mentre il 6 gennaio si avvicinava, Trump intensificò gli appelli all’azione per quel giorno – e le pressioni sul vicepresidente Mike Pence, che aveva il compito di presiedere la seduta congiunta. Il presidente si affidò a a un gruppo di avvocati secondo i quali Pence avrebbe potuto respingere il voto dei grandi elettori di qualche stato e, in ultima analisi, annullare la vittoria di Biden. Il piano era azzardato e, secondo esperti giuridici, incostituzionale. Trump aveva l’impressione che Pence fosse disponibile alle sue macchinazioni, perché richiedeva approfonditi pareri legali per capire fino a che punto avrebbe potuto piegarsi ai suoi desideri. Trump istigò la base per vedere in Pence un potenziale eroe o nemico, a seconda di quale strada avesse preso il vicepresidente. “Spero che Mike Pence ci aiuti”, dichiarò a un comizio in Georgia due giorni prima della seduta al Congresso, aggiungendo: “Se non lo farà, non mi piacerà più tanto”.
 
I sostenitori di Trump non solo sapevano dove voleva che si riunissero il 6 gennaio. Sapevano anche chi era il loro obiettivo. Ripetutamente, man mano che il giorno cruciale si avvicinava, i vertici delle autorità di pubblica sicurezza ricevettero avvertimenti su quello che stava per accadere, ma non seppero rispondere in modo adeguato.  


L’Fbi, la principale agenzia di intelligence nazionale, ricevette numerose segnalazioni su persone che giuravano di voler assaltare il Congresso, ma valutò i messaggi sui social in cui si pianificavano azioni per il 6 gennaio – anche quelli in cui si discuteva di portare armi da fuoco, arrestare parlamentari e sparare alla polizia – come discorsi protetti dal primo emendamento della Costituzione (sulla libertà di parola, ndt). L’Fbi compromise la propria capacità di capire fino a che punto gli estremisti di estrema destra e i sostenitori di Trump si stessero mobilitando in un momento chiave, quando cambiò il servizio di monitoraggio dei social media una settimana prima dell’assalto. Entrò in gioco anche la politica. Dopo mesi in cui il presidente minacciava di licenziare il direttore dell’Fbi Christopher Wray, gli alti dirigenti dell’agenzia temevano che ogni sua dichiarazione pubblica potesse “attirargli le ire di un presidente disperato”, ha riferito una persona al corrente della discussione. Al Pentagono, i vertici erano seriamente preoccupati che la violenza potesse dilagare, e alcuni temevano che Trump potesse abusare della Guardia nazionale per rimanere in carica, rivelano nuove testimonianze.
 
Funzionari militari presero decisioni fatali per evitare di restare invischiati in una rivolta interna, scottati dai tentativi del presidente, mesi prima, di usare l’esercito per sedare le proteste contro il razzismo. Il generale Mark Milley, capo di stato maggiore, e Ryan McCarthy, allora segretario all’Esercito, decisero che soltanto i dirigenti di alto livello del Pentagono potessero autorizzare modifiche alle missioni dei soldati della guardia nazionale. Alla fine, questa disposizione contribuì al ritardo di ore con cui la Guardia nazionale intervenne per riportare l’ordine al Campidoglio. A un certo punto, Milley suggerì di bloccare completamente la città e di revocare i permessi per le proteste, e Christopher Miller, segretario alla Difesa ad interim, disse di temere una rissa sanguinosa “tipo massacro di Boston”, che gli estremisti avrebbero potuto strumentalizzare per sostenere di essere sotto attacco da parte del governo. 


Miller era particolarmente frustrato dai colleghi del dipartimento di Giustizia: pensava che avrebbero dovuto prendere loro in mano la situazione, e ha descritto una telefonata che aveva organizzato con alcuni membri-chiave della sicurezza e dell’esecutivo come un “delirio totale”. “Nessuno, tra dipartimenti e agenzie, si rendeva conto di quel che stava accadendo, ed era palese che era un evento che andava coordinato e discusso”, ha detto. “Invece, era tutto così: ‘Il permesso è a posto. ‘Le transenne sono sistemate’. ‘La polizia è stata rafforzata’. ‘Ok, abbiamo finito. Arrivederci’. Il tono era quello”. 
 
I funzionari del dipartimento di Sicurezza nazionale ricevettero valutazioni allarmanti sul rischio di possibili violenze il 6 gennaio, compresa la segnalazione del fatto che gli edifici federali erano tra gli obiettivi possibili dei manifestanti. Un alto funzionario aveva partecipato alla telefonata coi centri informativi organizzata da Sena, che aveva spinto Washington a cominciare a prepararsi. L’agenzia inviò centinaia di agenti della polizia di frontiera e di altri corpi a protezione degli uffici di Washington. Ma non diramò un bollettino di sicurezza – lo strumento più immediatamente riconoscibile da parte delle autorità e del pubblico – per possibili episodi di violenza. E i vertici delle agenzie non si attivarono per far assumere al Secret service (che si occupa della sicurezza del presidente e del governo) la pianificazione delle operazioni di sicurezza a un evento a cui avrebbero partecipato tutti i membri del Congresso e il vicepresidente: una mossa che avrebbe potuto favorire la condivisione delle informazioni e il coordinamento delle operazioni.  
La polizia del Campidoglio, che aveva il compito di proteggere un ramo essenziale del governo, monitorava da settimane post di minacce sui social media, ma è stata ostacolata dalla scarsa comunicazione e pianificazione. Il nuovo capo dell’intelligence del dipartimento il 3 gennaio giunse alla conclusione che i sostenitori di Trump erano disperati e volevano ribaltare il risultato delle elezioni e che “il Congresso stesso” era l’obiettivo. Ma Steven Sund, capo della polizia, non possedeva quell’informazione quando chiese all’ultimo momento l’invio di soldati della Guardia nazionale, una richiesta che fu velocemente bocciata. La preparazione delle forze di polizia era così scarsa che scudi, caschi e attrezzature antisommossa erano sotto chiave e centinaia di agenti erano stati dislocati altrove, lontano dal Campidoglio, o era stato loro permesso di rimanere in ferie programmate in precedenza.
 
In risposta a quanto scoperto dal Washington Post, i dirigenti della polizia del Campidoglio hanno detto di aver già avviato diverse riforme per correggere gli errori che hanno portato al 6 gennaio. “Il dipartimento si aspettava ed era pronto ad affrontare episodi di violenza da parte di qualche manifestante legato a organizzazioni terroristiche interne, ma nessuno tra le forze dell’ordine o l’intelligence immaginava che oltre a quelle minacce ci fossero degli americani non affiliati a questi gruppi, che avrebbero fatto sì che il caos aumentasse, riproducendosi per metastasi fino a creare una situazione ingestibile per qualsiasi agenzia di pubblica sicurezza”, ha dichiarato il dipartimento in un comunicato. “Il mondo non dovrebbe mai dimenticare che i nostri agenti hanno lottato come furie il 6 gennaio e in fin dei conti nessuno di quelli che dovevano proteggere è stato ferito, e il processo legislativo è continuato”. Il dipartimento di Sicurezza nazionale ha dichiarato in un comunicato che sta collaborando a un’indagine in corso sugli errori commessi e “facendo tesoro delle lezioni apprese per migliorare la capacità futura di prevenire atti di violenza”.  
 
Il portavoce del Pentagono John Kirby ha commentato che il ministero della Difesa “continua a collaborare con il Congresso all’analisi degli eventi di quel giorno”. Alti funzionari dell’Fbi hanno difeso l’operato del Bureau prima del 6 gennaio, definendolo dinamico ed energico. In interviste e dichiarazioni, hanno confermato che gran parte delle conversazioni allarmanti che gli agenti avevano intercettato online esprimevano soprattutto “aspirazioni” – e, quindi, erano protette dal primo emendamento della Costituzione – e non prove circostanziate di un piano preciso, necessarie per lanciare un’indagine o poter prevedere un assalto di massa al Campidoglio. 
In alcuni casi, l’Fbi ha contattato persone già indagate per scoraggiarle dall’andare a Washington il 6 gennaio, hanno riferito alcuni funzionari. Uno di loro ha spiegato che in un caso gli investigatori avevano ricevuto una soffiata su una persona che incitava alla violenza contro gli agenti di polizia il 6 gennaio e hanno mandato degli agenti e la polizia locale a interrogare il soggetto. A livello nazionale, l’Fbi aveva anche avvertito le sedi locali di fare attenzione a possibili informazioni di minacce nell’area di Washington prima della seduta congiunta del Congresso. 
La vicedirettrice dell’Fbi Cathy Milhoan ha detto che il Bureau “era impegnato attivamente per raccogliere informazioni, ostacolare gli spostamenti e condividere le informazioni con i nostri partner.  (segue nell’inserto IV)
L’Fbi aveva espressamente allertato i partner a livello statale, locale e federale sul pericolo di violenze agli eventi in programma il 6 gennaio”. In una dichiarazione, il portavoce di Trump Taylor Budowich ha contestato l’inchiesta del Washinton Post, bollandola come “fake news” e ha presentato, a torto, le persone che quel giorno entrarono al Campidoglio come “provocatori non associati al presidente Trump”. 


Meno 102 giorni

Le violenze del 6 gennaio erano in preparazione da mesi. La prima allusione di Trump all’idea che il Congresso potesse determinare il vincitore delle elezioni presidenziali venne fatta oltre un mese prima che gli elettori andassero alle urne, il 26 settembre, a un comizio nelle vicinanze di Harrisburg, in Pennsylvania. Dopo aver sciorinato i soliti luoghi comuni sui brogli elettorali, il presidente introdusse una novità: “Non vorrei dover tornare al Congresso, anche se abbiamo un vantaggio, tornando al Congresso. Lo capite tutti? Credo che sia 26 a 22 o giù di lì, perché si conta un voto per stato”.
 
Alcune persone gridarono, ma dietro il palco qualcuno sembrò perplesso. Trump stava descrivendo un procedimento oscuro per determinare il risultato delle elezioni che si applica quando nessun candidato riceve la maggioranza dei voti del collegio elettorale – una situazione che il Congresso non si trovava ad affrontare dal 1876. Anche se quella frase non aveva avuto grande eco a Harrisburg, i democratici al Congresso l’avevano notata.
 
All’inizio di agosto, Nancy Pelosi, speaker della Camera, democratica della California, aveva dato istruzioni ai suoi di iniziare a preparare un piano d’emergenza se Trump avesse tentato di rovesciare il voto al Congresso in caso di parità o contestazioni al collegio elettorale. In tal caso, alla delegazione di ogni stato alla Camera sarebbe stato assegnato un voto per scegliere il presidente. Prima delle elezioni, i repubblicani erano in vantaggio: controllavano 26 delegazioni statali contro le 22 dei democratici.   Riconoscendo l’esistenza di questa possibilità, i democratici avevano iniziato a concentrarsi su sei sfide elettorali in Florida, Pennsylvania, Michigan, Montana e Alaska, una lista che si sarebbe allungata fino a comprenderne oltre una decina. Se qualcuna di queste fosse passata di mano, i democratici avrebbero avuto il controllo di oltre 25 delegazioni statali all’insediamento del nuovo Congresso il 3 gennaio – sufficienti per garantire a Biden la vittoria in caso di contestazioni del voto della Camera il 6 gennaio. Le parole di Trump confermarono i sospetti dei democratici. Il giorno successivo, Pelosi mandò una lettera ai democratici alla Camera, informandoli che il piano di emergenza era già in atto. “La Costituzione dice che un candidato deve ottenere la maggioranza delle delegazioni statali per vincere”, scrisse Pelosi. “Dobbiamo assicurarci quella maggioranza o impedire ai repubblicani di farlo”.
 
Tre giorni dopo il comizio di Harrisburg, Trump fece una dichiarazione ancora più allarmante durante il primo dibattito presidenziale. A Chris Wallace, il moderatore, che gli aveva chiesto se si volesse dissociare dai suprematisti bianchi e dai gruppi paramilitari per il ruolo svolto nelle violenze che avevano sconvolto le città statunitensi nell’estate del 2020 – tra cui un diciassettenne accusato di aver sparato sui manifestanti a Kenosha, nel Wisconsin, uccidendo due persone e ferendone una terza – Trump ribadì che la responsabilità delle violenze era della sinistra, non della destra. Biden incalzò Trump perché condannasse espressamente il comportamento dei Proud Boys, un gruppo di estrema destra noto per gli scontri con i manifestanti di sinistra. Quando Wallace gli chiese di rispondere, Trump disse: “Proud Boys, stand back and stand by” (Fatevi da parte. E tenetevi pronti). Su Parler, il social network apprezzato da conservatori e razzisti, il leader dei Proud Boys, Enrique Tarrio, rispose quasi immediatamente: “Molto Orgoglioso dei miei ragazzi, in questo momento. Ci teniamo pronti, signore. ProudBoys!!!!!!!! Mi faccio da parte, signore!!!!”.
 
Il messaggio di Trump non stava soltanto spronando all’azione i gruppi di estrema destra. A Tampa, Paul Hodgkins, gruista di 38 anni, fu sedotto dalle parole del presidente. Per un uomo che pensava che possedere una casa, come avevano fatto i suoi genitori, non sarebbe mai stato alla sua portata, lo slogan di Trump “Make America Great Again” coglieva nel segno. Figlio e nipote di meccanici per ascensori iscritti al sindacato, Hodgkins aveva lavorato in fabbrica, fatto il camionista, venduto legna da ardere e recuperato metallo da oggetti rottamati, e fino a qualche anno prima, aveva fatto il lottatore di wrestling come lavoretto part-time, guadagnando a volte soltanto 25 dollari a incontro. Da sette anni, faceva il turno di notte in una fabbrica, spostando grosse bobine d’acciaio.  Le sue affiliazioni politiche erano ugualmente nomadi – aveva sostenuto il repubblicano George W. Bush nel 2000, l’indipendente Ralph Nader nel 2004 e il democratico Barack Obama nel 2008. Nel 2012, sulla scheda aveva scritto il proprio nome. Ma dal 2016, aveva puntato tutto su Trump. “Fin da quando ero bambino, ricordo che molti dicevano che avrebbero voluto veder diventare presidente non un politico, o uno che fosse controllato dalle leve del potere di Washington. E’ questo che ho visto in Donald Trump”, ha detto Hodgkins. “Sembrava che nessuno dei due schieramenti lo volesse e per questo a me e a molti altri piaceva ancora di più”. 
 
Hodgkins faceva il volontariato telefonico per Trump, ma quello che gli piaceva davvero era l’aspetto artistico della campagna elettorale. Nelle settimane prima del giorno del voto, Hodgkins si era messo una calzamaglia a stelle e strisce Maga e si era piazzato in un incrocio trafficato a Tampa, sventolando le bandiere della campagna di Trump.  Quando Trump fece affermazioni fuorvianti e false, avvertendo del pericolo di brogli elettorali, Hodgkins cominciò a preoccuparsi. Non aveva mai sentito parlare di tattiche come il “vote harvesting” (la “raccolta dei voti”, quando cioè una terza parte si occupa di raccogliere le schede e portarle ai centri ufficiali per il conteggio, ndt), né visto così tanti voti per posta. “Alle elezioni precedenti certe cose non succedevano”, ha detto.


Meno 63 giorni

Alle prime ore del mattino del giorno dopo le elezioni, quando sembrava che potesse rischiare di perdere, Trump si presentò davanti ai suoi sostenitori nella East Room e affermò il falso, dicendo che le elezioni erano truccate. Il giorno successivo, Trump twittò di aver “rivendicato” la vittoria in Pennsylvania, dicendo il falso, ovvero che lo stato non ammetteva osservatori elettorali. I tweet, i post sugli altri social media di Trump, di suo figlio Eric e della sua squadra iniziarono a galvanizzare i suoi sostenitori, specialmente negli stati contesi in cui sembrava avviato alla sconfitta. L’espressione “Stop the steal”, fermate il furto, esplose online. Il portavoce della campagna di Trump Tim Murtaugh sostenne senza alcuna prova che c’erano strani giochetti in uno dei centri di elaborazione delle schede, a Detroit, per impedire che i voti per Trump venissero conteggiati equamente. Nel pomeriggio, i sostenitori di Trump erano confluiti davanti alla struttura. All’imbrunire, i contestatori si erano anche riuniti davanti agli uffici governativi della contea di Maricopa, in Arizona, dove c’erano ancora 300 mila schede elettorali da contare. Sul suo computer, in Colorado, Graham Brookie, che aveva fatto parte del Consiglio per la sicurezza nazionale sotto la presidenza Obama e ora monitorava l’estremismo interno con un gruppo chiamato “Laboratorio di ricerca di informatica forense”, vedeva “sbocciare un milione di fiori di disinformazione”.
 
Brookie e il suo ricercatore capo, Jared Holt, si accorsero che gli estremisti si scambiavano informazioni frammentarie sulle elezioni e che figure di spicco le amplificavano rapidamente, trasformando dicerie in complotti per poi discutere di come passare all’azione. “Si prende una piccola informazione. ‘Hanno spento le macchine per votare a X’”, ha detto Brookie. “Qualcuno aggiunge qualcosa. Qualcun altro ancora qualcosa. E di colpo sono lì a parlare di cosa possono fare”.  Su Telegram, alcuni utenti che si identificavano come Proud Boys diffondevano voci secondo cui i funzionari della contea di Maricopa, di cui fa parte Phoenix, non stavano contando tutti i voti perché qualcuno aveva usato un pennarello per segnare il voto. I funzionari della contea avevano smentito la voce, ma non era servito a nulla. Holt avvertì per la prima volta una sensazione di inquietudine per la piega che rischiavano di prendere le cose, mentre monitorava i video del 4 novembre da Maricopa. Vide che alcuni manifestanti brandivano apertamente fucili e pistole. “C’era gente armata, con opinioni decisamente estreme”, disse Holt. “Non era solo l’esternazione di una protesta, qualcuno era andato lì con l’intenzione di intimidire”.
 
Le immagini di quello che stava succedendo spiazzarono anche Clint Hickman, presidente repubblicano del Consiglio dei supervisori della contea di Maricopa (l’organo di governo della contea di Maricopa, che conta oltre 4 milioni di abitanti, ndt) e fervente sostenitore di Trump. Quando il presidente era andato a Phoenix per un comizio, il 23 giugno, Hickman era stato l’unico funzionario della contea invitato ad accoglierlo in aeroporto, ed era lì ad attenderlo alla base della scaletta mentre Trump scendeva dall’Air Force One. Hickman teneva esposta nel suo ufficio una fotografia che ritraeva quel momento, accanto alle foto della sua famiglia. Ora però i sostenitori del presidente minacciavano i suoi colleghi dell’ufficio elettorale e il processo democratico che stavano svolgendo. Davanti alla sede degli uffici elettorali della contea, un uomo che indossava pelliccia e corna – un personaggio che si faceva chiamare lo sciamano di QAnon – incitava, vicino ad Alex Jones di Infowars (guru del complottismo mondiale, dal suo sito di “controinformazione” al servizio della destra più conservatrice, ndt), che urlava al megafono: “La resistenza è vittoria! Voi siete la vittoria!”.


 La folla si dirigeva verso l’edificio, spingendosi fino al parcheggio vicino. Hickman si immaginava sua madre – che si era offerta volontaria per contare i voti alle elezioni precedenti – al centro di una simile folla e si arrabbiò. “E io dovrei mandare queste vecchiette a prendere la macchina nel parcheggio con questa gente?”, ricorda di aver pensato. Le proteste organizzate con l’hashtag #StopTheSteal  si diffusero velocemente ad Atlanta, Harrisburg e Las Vegas. Il movimento veniva promosso da un sito chiamato stopthesteal.us, che elencava tutte le manifestazioni di protesta in ogni stato. Il sito era gestito da Ali Alexander, un attivista di estrema destra che era stato invitato al summit sui social media della Casa Bianca nel 2019 dopo aver messo in dubbio il fatto che la senatrice Kamala Harris, democratica della California, si potesse definire nera americana.
 
Il 7 novembre, i principali network televisivi assegnarono la Pennsylvania a Biden, che aveva così superato i 270 grandi elettori necessari per aggiudicarsi la vittoria. Mentre i democratici festeggiavano, membri del gruppo paramilitare dei Three Percenters (movimento di estrema destra pro Trump, ndt) oltre a simpatizzanti dell’ideologia estremista di QAnon e ad altri, si riunivano nelle capitali degli stati. Ad Harrisburg, centinaia di simpatizzanti di varie formazioni estremiste antigovernative erano schierati a fianco di politici repubblicani sulla scalinata della sede del governo, e scandivano: “Donald Trump ha vinto”, e: “Non mollate”.  
 
Quel giorno, un analista dell’Fbi in Alabama mandò una segnalazione per e-mail ad altri agenti. L’analista citava delle minacce intercettate su TheDonald.win e su altri forum in rete dal Site Intelligence Group, un servizio privato che monitora l’estremismo online e ha tra i suoi abbonati anche alcuni dipendenti dell’Fbi. Un agente dell’Fbi a Seattle ricevette la segnalazione e la girò a decine di persone fra i suoi contatti, tra cui funzionari di polizia locali e statali. Una parte era particolarmente allarmante: “Minacce di morte: gruppi paramilitari hanno adottato una retorica sempre più violenta, in una nuova escalation, dichiarando: ‘Ora si combatte’. Su un forum noto tra le milizie, gli utenti chiedevano di giustiziare Biden, i democratici, i dipendenti delle aziende tecnologiche, giornalisti e altri ‘topi’”.
 
“Una marea di eventi coordinati con l’hashtag #StopTheSteal e altri simili vengono organizzati in tutto il paese, mentre tra i simpatizzanti di Trump prendono piede varie teorie sui brogli elettorali”, continuava l’agente, aggiungendo: “Per favore, rimanete concentrati e al sicuro”.

 
Mentre continuava lo spoglio delle schede, i risultati modificavano i calcoli di Pelosi e dei democratici alla Camera. Anche se Trump aveva perso, aveva fatto meglio del previsto, e i repubblicani guadagnavano seggi alla Camera. Questo permetteva loro di restare in vantaggio per il numero di delegazioni statali che controllavano – e suggeriva a Trump un modo per vincere una votazione alla Camera il 6 gennaio se per qualche motivo il voto del collegio elettorale fosse stato messo in discussione.

 

Meno 53 giorni

Mentre Trump si rifiutava di ammettere la sconfitta, i suoi sostenitori inferociti e sedicenti gruppi paramilitari si preparavano a dare battaglia. Rapidamente, il progetto della “Million Maga March” in programma a Washington il 14 novembre galvanizzò personaggi noti per la loro retorica estrema.
 
Stewart Rhodes, fondatore della formazione antigovernativa degli Oath Keepers (i sedicenti “custodi della Costituzione”, ndt) che a settembre aveva dichiarato: “La guerra civile è qui, adesso”, durante le violenze che scuotevano Portland, in Oregon, disse che era pronto a usare la forza su ordine di Trump, se avesse invocato l’Insurrection Act – una legge raramente usata, che dava al presidente il potere di impiegare le forze armate per sedare insurrezioni e disordini civili che la polizia non riusciva da sola a controllare.
 
Giorni prima della marcia, Rhodes apparve a un raduno del movimento Stop the Steal nel nord della Virginia. L’evento era trasmesso live sul canale YouTube degli Oath Keepers. (segue nell’inserto V)
Rhodes disse al pubblico che i sostenitori di Trump “dovevano dichiarare che Joe Biden non è… il presidente di nessuno. E’ un usurpatore”. Rhodes invitò tutti i cittadini a tenersi pronti a combattere finché Trump “è il comandante in capo e siamo ancora in tempo” per agire. Estremisti legati al movimento dei Three Percenters progettavano di unirsi agli Oath Keepers il 14 novembre. Nicholas Fuentes, a capo del movimento dei nazionalisti bianchi Groypers, che aveva partecipato al raduno di Unite the Right (Unire la destra) a Charlottesville nel 2017 sfociato in tragedia, chiese ai suoi alleati di unirsi a lui a Washington.  Si aggiunse anche qualche altro elemento chiave proveniente dalla base di Trump. L’ex attivista del Tea party Amy Kremer contribuì a trasformare il gruppo pro Trump delle Women for America First in un volano per il movimento Stop the Steal, spingendo all’azione una più ampia platea di sostenitori di Trump.  


All’Istituto per la protezione e la difesa costituzionale della Georgetown University, Mary McCord osservava con apprensione crescente l’organizzazione delle proteste. Ex procuratore generale aggiunto per la sicurezza nazionale, aveva iniziato a coordinarsi con il laboratorio di Brookie. Riferì quello che avevano scoperto i ricercatori di Brookie in alcune lettere dell’11 novembre al procuratore distrettuale di Washington, Karl Racine, democratico, e ai procuratori federali di Washington. Sulla base di post pubblici e privati sui social media, scrisse, sembrava che alcuni gruppi “con precedenti per comportamenti violenti” fossero diretti a Washington, dove probabilmente li avrebbero attesi i contro manifestanti, “facendo salire la possibilità di scontri”. Racine avrebbe poi passato l’informazione al sindaco e ad altri funzionari governativi di Washington, e chiesto a McCord di tenere al corrente il suo ufficio. I procuratori lo segnalarono al distaccamento dell’Fbi di Washington.
 
Al quartier generale della polizia del Campidoglio fu deciso di rafforzare il numero degli agenti di pattuglia disponibili e si decise di disporre delle unità antisommossa – con scudi, caschi e altri dispositivi di protezione per il contenimento della folla – lungo il lato orientale del Campidoglio, dove erano attesi i manifestanti.
Una delle unità era guidata dal capitano Carneysha Mendoza, un’ex agente, famosa perché arrivava in ufficio anche alle 3 del mattino per allenarsi a fare di corsa le scale. Mendoza, veterana con 19 anni di servizio alle spalle, aveva il dono di riuscire a trovarsi sempre in mezzo alle emergenze. Era in servizio al Pentagono l’11 settembre, ed era lei comandante di guardia nel 2017, quando un uomo sparò sui membri del Congresso che si allenavano in Virginia per una partita amichevole di baseball. Il 14 novembre, Mendoza e i suoi uomini si schierarono davanti al Campidoglio verso l’imbrunire e osservarono i Proud Boys e gli altri manifestanti sfilare vicino al Campidoglio. Le sembrò che fissassero i suoi agenti come per valutarli, al loro passaggio. Mentre scendeva la sera, tra gli estremisti e i gruppi di contromanifestanti iniziarono tafferugli – subito dopo cominciarono le risse nelle strade tra il Campidoglio e la Corte Suprema. Mendoza e i suoi agenti si gettarono ripetutamente nella mischia per separare le fazioni avverse. Volarono pugni. Gli agenti vennero spintonati dalla folla.
 
In quella zona e nel resto della città, gli scontri andarono avanti per ore. Verso mezzanotte, i Proud Boys riuscirono a controllare la Black Lives Matter Plaza, a nord della Casa Bianca, rinominata da poco in onore del movimento, e a srotolare un enorme striscione con la scritta: “Trump Law and Order”.  Quando finì, una persona era stata accoltellata, c’erano quattro agenti feriti, la polizia aveva sequestrato quattro armi da fuoco ai manifestanti e oltre 20 persone erano state arrestate, molte di loro per istigazione alla violenza.
 
Gli scontri furono talmente violenti che Mendoza a malapena riusciva a muoversi, quando si svegliò la mattina dopo. La sera dopo, mandò un messaggio a un collega che era stato di pattuglia con lei: “Mi fa male tutto il corpo… ma soprattutto, le ginocchia e le cosce”. Anche lui si stava riprendendo, ma scrisse che aveva brindato perché erano riusciti a evitare che finisse anche peggio – inoltrandole la foto di un bicchiere vuoto di fianco a una bottiglia di scotch.


 Meno 48 giorni

Alla Casa Bianca, Trump era ogni giorno più agitato, mentre consiglieri e alleati gli propinavano tesi sempre più assurde, tra cui quella che le elezioni potevano essere state manipolate dall’estero e che il software usato per il conteggio delle schede avvantaggiava i voti per Biden rispetto a quelli per Trump. Rudy Giuliani, uno dei legali personali di Trump, e l’avvocato Sidney Powell fecero circolare presunte prove dei brogli definite “ridicole” da un alto funzionario della Casa Bianca che le ha visionate. Il 14 novembre, lo stesso giorno delle proteste, i ricercatori della campagna elettorale di Trump fecero circolare un documento di 14 pagine che confutava molte delle loro teorie, tra cui il sospetto che l’azienda Dominion voting system (l’azienda che produce il software usato per contare le schede in 28 stati, ndt) fosse legata al Venezuela o al collettivo Antifa, libera affiliazione di attivisti di estrema sinistra. Il presidente, però, si era così innamorato delle teorie del complotto che chiedeva ai suoi consiglieri se il governo potesse indagare in proposito – soprattutto se fosse possibile che paesi stranieri come la Cina avessero manomesso il voto. E diede a Giuliani e Powell un’ampia piattaforma per promuovere le loro rivendicazioni, mettendo in disparte gli avvocati della sua campagna.

Il 19 novembre, il duo si presentò davanti ai giornalisti al Comitato nazionale repubblicano ed espose una spiegazione su come le elezioni erano state truccate da far girare la testa. “Non possiamo permettere che succeda a noi”, disse Giuliani, prevedendo un disastro se il risultato delle elezioni non fosse stato rovesciato. “Non possiamo permettere a questi imbroglioni, perché è quello che sono, di rubare le elezioni al popolo americano. Hanno eletto Donald Trump. Non hanno eletto Joe Biden. Joe Biden è in vantaggio grazie ai brogli elettorali”. Guardando da casa sua, a Tampa, in Florida, la tinta scura per capelli che gocciolava ai lati del viso di Giuliani, Paul Hodgkins, (il gruista che tifava Trump, ndt) sospettava, a ragione, che quella scena avrebbe fornito materiale ai comici in tarda serata. Ma a colpirlo soprattutto fu l’immagine di due ex procuratori federali, di fama nazionale, che muovevano accuse molto serie per conto del presidente degli Stati Uniti. Hodgkins era caduto in una profonda depressione dopo le elezioni. Si sentiva distante dagli amici di lunga data e dalla sua famiglia che disprezzava Trump, compresi sua madre, suo fratello, sua sorella, e più vicino agli amici che si era fatto durante la campagna elettorale, convinti che le elezioni fossero state truccate. Sì, Trump a volte esagerava, Hodgkins lo sapeva, ma le voci sempre più numerose che concordavano con il presidente erano convincenti. “Avvocati come Giuliani e Sidney Powell non sono tipi da correre dietro alle favole”, ricorda di aver pensato Hodgkins. “Non credo che si fossero inventati quelle cose. Sono abbastanza sicuro che se volessi assumerli come avvocati, non sarebbero certo a buon mercato. Non sono degli avvoltoi”. Hodgkins assimilò le false accuse sui brogli elettorali da Fox News e dal sito di destra Daily Caller. E prese nota dei raduni del movimento Stop the Steal che spuntavano nelle vicinanze di Tampa. Il nuovo movimento aiutò Hodgkins a scrollarsi di dosso la depressione post elettorale. Riempì un assegno da 10 dollari intestato alla campagna di Trump e partecipò al raduno successivo. Era pronto per contribuire alla causa.

 


Meno 36 giorni

Anche se era chiaro che il rifiuto di Trump di riconoscere il risultato elettorale stesse istigando i suoi sostenitori ad agire, gli alti funzionari per la pubblica sicurezza dell’Fbi e del ministero della Giustizia erano paralizzati. Il presidente era sempre più furibondo perché i funzionari non appoggiavano le sue accuse infondate di brogli elettorali. Le minacce di Trump a Wray erano irritanti. Il capo dell’Fbi non voleva altre occasioni di scontro con il presidente.  
 
Al dipartimento di Giustizia, il ministro William Barr non riusciva più a star dietro al presidente che aveva a lungo difeso. Barr aveva passato gran parte del periodo precedente al voto a rilanciare le accuse di Trump sull’ipotesi di brogli nel voto postale. Dopo il giorno delle elezioni, aveva allentato le regole che permettevano ai procuratori federali di avviare autonomamente indagini sulle elezioni, e si era schierato con gli agenti dell’Fbi che volevano verificare almeno una delle accuse del presidente sui brogli. Ma nessuna di queste aveva fatto emergere prove di manipolazioni in grado di influenzare il risultato.
 
I funzionari del dipartimento di Giustizia e dell’Fbi restarono in silenzio di fronte alle crescenti recriminazioni dai profili Twitter della Casa Bianca e del presidente. Qualcuno, tra gli alti funzionari delle agenzie federali di pubblica sicurezza, pensava che le richieste di Trump si sarebbero placate, altri invece sostenevano che, se fosse stato necessario, Barr avrebbe potuto mettere fine a questa storia con una dichiarazione pubblica. “Possiamo fermare tutto quando vogliamo, ma preferiamo non farlo. Non sta a noi”, dichiarò un alto funzionario all’epoca.
 
Un secondo alto funzionario del dipartimento di Giustizia che sapeva come la pensava Barr disse che il ministro della Giustizia non era ottimista sulla situazione, ma era convinto che finché gli avvocati di Trump si fossero concentrati soprattutto su casi di livello statale, il dipartimento di Giustizia avrebbe potuto evitare di esporsi.
 
Nella seconda metà di novembre, alcuni repubblicani al Senato tra cui il leader della maggioranza Mitch McConnell, del Kentucky, fecero pressione, in privato, su Barr perché facesse una dichiarazione pubblica per mettere a tacere le accuse infondate di errori diffusi nel conteggio dei voti. Barr tergiversò, ma il 23 novembre disse in privato a Trump che le voci di gravi problemi legati alle macchine per il conteggio dei voti erano stupidaggini.
 
Dopo il Thanksgiving e dopo che Trump aveva rimproverato pubblicamente il ministro della Giustizia su Fox News per non aver fatto emergere i brogli, Barr decise di intervenire. Il primo dicembre diede un’intervista all’Associated Press, i cui servizi vengono trasmessi su migliaia di televisioni e giornali in tutto il paese. “Al momento, non abbiamo riscontrato brogli di portata tale da alterare il risultato elettorale”, dichiarò il ministro della Giustizia. Barr e i suoi consiglieri sapevano che queste parole avrebbero mandato su tutte le furie Trump ma speravano anche che avrebbero “instillato un po’ di realtà in quella situazione”, ricorda il secondo funzionario, riportando l’onere della prova nel campo degli avvocati del presidente. Invece, segnarono l’inizio della fine del mandato di Barr. Due settimane dopo quelle dichiarazioni, Barr annunciò le sue dimissioni.
 
Presto Ali Alexander, Amy Kremer e altri sostenitori di Trump si misero a organizzare un altro raduno a Washington per il 12 dicembre, due giorni prima che i membri del collegio elettorale si riunissero nelle capitali degli stati in tutto il paese. Jared Holt, del Laboratorio di ricerca informatica forense, vedeva toni sempre più violenti negli appelli agli alleati di Trump a tornare a Washington. Su Telegram, i Proud Boys di Philadelphia, una sezione del movimento che finiva spesso in prima pagina sui giornali per l’uso della violenza, condivisero un’immagine di uomini con casco, equipaggiamento tattico nero e fucili d’assalto. La didascalia a caratteri cubitali che occupava la metà inferiore dell’immagine recitava: “Spaccategli i denti”.
 
Il leader di un gruppo dei Proud Boys del New Hampshire che si faceva chiamare “Biggdaddy”, publicizzò l’evento su Parler e disse ai membri di non mancare all’appuntamento con la storia per “sostenere il nostro presidente”. Rhodes, il leader dell’organizzazione, pubblicò un appello nazionale rivolto agli Oath Keepers ad andare a Washington, chiedendo espressamente agli agenti di polizia di unirsi alla causa, sottolineando che loro erano autorizzati a portare armi nascoste.  “Abbiamo bisogno soprattutto di Leo (agenti di forze dell’ordine, ndt) – e di veterani delle forze armate esperti di sicurezza (veterani di corpi armati, ad esempio) o l’equivalente civile”, scrisse Rhodes. I discorsi che Holt vedeva sulla piattaforma social MeWe indicavano che il numero degli attivisti che sarebbero andati a Washington questa volta era molto più elevato rispetto al mese precedente. “Si incontreranno con 750 Proud Boys là”, scriveva un utente in una chat di gruppo per i Three Percenters in Pennsylvania. 
 
Alcuni gruppi avevano già fatto capire di voler fare pressione sui parlamentari proprio dove lavoravano. Il 18 novembre, Alexander si unì a Fuentes, il leader di Groypers; a Tarrio dei Proud Boys; e ad Alex Jones, il teorico del complottismo di estrema destra di Infowars, a un raduno di fronte al Campidoglio di Atlanta, in Georgia. “Chi è pronto ad assaltare con noi il Campidoglio fra un paio di minuti?” urlò Alexander al megafono. “Pacificamente”, aggiunse Jones. “Pacificamente”, disse Alexander, ridendo. La folla quindi entrò nell’edificio, scandendo “seduta straordinaria”, chiedendo ai parlamentari statali di riunirsi per indagare sulle elezioni del 2020. Alexander e gli altri manifestanti tornarono al Campidoglio della Georgia ogni giorno, per i tre giorni successivi. Il 21 novembre, Trump twittò in segno di approvazione: “Grandi cortei in tutto il paese”, scrisse. “La valanga di prove è innegabile. Molti più voti del necessario. E’ stata una vittoria SCHIACCIANTE!”.
 
In Georgia, la pioggia di accuse di brogli di Trump e dei suoi sostenitori aveva provocato un’ondata di minacce nei confronti dei funzionari elettorali. Tra questi, c’era un giovane tecnico che lavorava per la Dominion voting systems nella periferia di Atlanta, che era stato notato in un video mentre trasferiva file da un computer all’altro, un’operazione di routine. Online, alcuni profili legati a QAnon sostenevano che il tecnico stesse manipolando i voti, e lo presero di mira con una gif con un cappio oscillante che girava su internet, chiedendone l’impiccagione per tradimento. Per un po’, l’uomo rimase nascosto. 

Gabriel Sterling, un funzionario dell’ufficio del segretario di stato della Georgia Brad Raffensperger, perse la pazienza. Il funzionario, repubblicano di vecchia data, si presentò davanti alle telecamere il primo dicembre per una conferenza stampa al Parlamento dello stato, con la voce che tremava dalla rabbia: “Questa storia è andata avanti anche troppo”, scandì. “Signor presidente, sembra che lei abbia perso nello stato della Georgia”, continuò Sterling, e aggiunse: “Smetta di istigare alla violenza. Qualcuno si farà male. Spareranno a qualcuno. Qualcuno verrà ucciso”.
 
Giorni dopo, Alexander, l’attivista di Stop the Steal, alzò la posta in un tweet: “Sono pronto a dare la vita per questa battaglia”, scrisse. Il post venne ritwittato dal Gop dell’Arizona – che chiese ai suoi follower se anche loro fossero pronti a morire.


Meno 25 giorni

Il 12 dicembre, come era successo il mese precedente, migliaia di sostenitori e manifestanti pro Trump confluirono a Washington, compresi quelli che, secondo le stime della polizia sulla base di quanto annunciato in anticipo dagli estremisti, dovevano essere circa 700 Proud Boys. “Non è finita, è solo l’inizio”, disse alla folla Katrina Pierson, consulente della campagna di Trump. 
Guardando il raduno sul computer nella cucina di casa sua, nei dintorni di Washington, la deputata Liz Cheney, repubblicana del Wyoming, non riusciva a credere ai suoi occhi. Si proiettò col pensiero al 6 gennaio, e iniziò a pensare, preoccupata, fino a che punto si sarebbero potuti spingere i seguaci di Trump più agguerriti. Cheney si immaginava un allarme bomba che avrebbe bloccato il conteggio per la ratifica del risultato elettorale. “Dobbiamo contare i voti quel giorno”, disse fra sé e sé. E iniziò subito dopo ad agire nell’ombra per bloccare Trump. Trovò 10 ex ministri della Difesa, di governi repubblicani e democratici, che firmarono un commento pubblicato dal Washington Post in cui intimavano ai funzionari delle forze armate di evitare a qualsiasi costo di usare i soldati per ostacolare il trasferimento pacifico dei poteri. E cominciò a lavorare a quella che sarebbe diventata una circolare di 21 pagine che spiegava in ogni dettaglio perché il Congresso non aveva alcun diritto costituzionale di bloccare la vittoria di Biden.
 
Durante il comizio, l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale di Trump Michael Flynn, che esortava il presidente a invocare la legge marziale e a rifare le elezioni, istigò la folla a continuare a combattere. “Ci sono ancora strade da percorrere perché Trump vinca”, disse minaccioso. “Non saranno i tribunali a decidere chi sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti. Siamo noi, il popolo, a decidere”. Alexander disse ai presenti che se il collegio elettorale avesse sostenuto la vittoria di Biden, la sua organizzazione, Stop the Steal, si sarebbe occupata di fare pressione sui repubblicani affinché si opponessero alla ratifica il 6 gennaio. Trump sorvolò la folla in elicottero, incoraggiando i suoi sostenitori. Verso sera, si scatenò il caos. Tarrio, il leader dei Proud Boys, sfilò con uno striscione di Black Lives Matter che qualcuno aveva strappato dalla fiancata della Asbury United Methodist Church, una storica chiesa nera nel centro di Washington, e, con altre persone, gli diede fuoco.  Manifestanti con caschi e giubbotti antiproiettile marciavano per la città in schieramento militaresco, gridando: “Via!” e “1776!” (l’anno in cui fu dichiarata l’indipendenza degli Stati Uniti d’America, ndt). Si precipitarono nelle strade laterali e nei vicoli, per raggiungere i manifestanti della fazione opposta. Centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa si spostavano insieme a loro, per impedire ai militanti di raggiungere il loro obiettivo.
 
Alla fine, le due parti si scontrarono. Almeno quattro persone furono accoltellate, tra cui alcuni membri dei Proud Boys. Otto persone, compresi due poliziotti, finirono in ospedale. Sei manifestanti furono incriminati per aver aggredito i poliziotti, e decine di altri vennero arrestati, tra cui quattro con l’accusa di sommossa e uno per aver portato un taser illegale.
 
Il giorno dopo gli scontri del 12 dicembre, i capi della polizia di Washington si riunirono e iniziarono ad analizzare le violenze. Oltre alla chiesa vandalizzata, gli agenti riferirono che molti Proud Boys indossavano auricolari e sembravano comunicare tra di loro per identificare gli obiettivi. All’Fbi molti avrebbero tratto la lezione sbagliata da quella sera – che il pericolo principale rappresentato dai Proud Boys e dagli altri gruppi estremisti erano gli scontri di piazza. Si sarebbe rivelato un grave errore di valutazione. “Il 6 gennaio sarà un problema della Mpd”, disse uno dei funzionari delle forze di sicurezza federale a dicembre, riferendosi alla polizia metropolitana di Washington, e ripetendo un’opinione che si sentiva spesso, ed era ampiamente condivisa all’interno dell’Fbi in quel periodo. Come sarebbe emerso in seguito, in vista del 6 gennaio ci si preparò soprattutto per il tipo sbagliato di violenza, nel posto sbagliato.
 
L’antiterrorismo è stata la missione principale dell’Fbi dall’11 settembre, e dalle ceneri di quel fallimento dell’intelligence, il Bureau si era ricostruito con l’obiettivo centrale di essere pronto a reagire prima di un attacco. “Left of bang” è l’espressione usata dagli investigatori per sventare un’azione terroristica prima che ci sia qualche violenza. Per oltre dieci anni, però, quando l’Fbi parlava di terrorismo, intendeva soprattutto violenze ispirate da gruppi stranieri. Una generazione di dirigenti dell’Fbi aveva fatto carriera nel Centro operativo per il terrorismo internazionale, che si trova in un vasto complesso di edifici moderni chiamato Liberty Crossing, nel nord della Virginia. Per il terrorismo interno, invece, c’era una struttura molto più piccola, concentrata in alcuni uffici vecchi e angusti, nel centro di Washington. Non era solo questione di personale e soldi, che gli agenti del terrorismo internazionale ricevevano in quantità superiore, sia a Washington sia nelle altre 56 sedi distaccate in tutto il paese. L’Fbi creava anche più ostacoli agli agenti, anche solo per aprire un’inchiesta.
 
I casi di terrorismo interno sono gli unici casi di terrorismo che richiedono l’autorizzazione esplicita – e una regolare riautorizzazione – da parte dell’avvocato di più alto grado in sede, per poter essere aperti. La regola è stata creata per tenere a freno gli agenti che avrebbero potuto oltrepassare i confini del lecito, indagando sulla libertà di parola, protetta dalla Costituzione. Gli agenti federali avevano poi meno opzioni, dal punto di vista legale, per accusare persone sospettate di terrorismo interno rispetto a un soggetto ispirato dallo Stato islamico o da al Qaida. Ad esempio, non c’è un equivalente dell’accusa di concorso materiale che esiste per i terroristi stranieri, se è un estremista interno a voler compiere azioni violente. Di conseguenza, gli investigatori assegnati al terrorismo interno spesso si accontentano di muovere accuse legate al possesso di armi o droga e spesso in tribunali statali, non federali, che possono mascherare la gravità della violenza estremista. Nella settimana successiva alle proteste del 12 dicembre, l’Fbi twittò che stava collaborando con la polizia locale, aggiungendo 1.000 dollari alla ricompensa offerta da Washington per ricevere informazioni sui sospetti di quella sera. Apparentemente, l’Fbi fece poco altro – anche se aveva ricevuto una soffiata il 17 settembre che avvertiva che i manifestanti incoraggiavano a sparare alla polizia in occasione della seduta congiunta al Congresso. “Vi preghiamo di venire a Washington, armati, il 6”, si leggeva in un post online segnalato in una nota dell’Fbi condivisa con la polizia del Campidoglio e le forze dell’ordine locali. “C’è la possibilità che si debbano uccidere le guardie del palazzo. Siete disposti a farlo?” si leggeva in uno dei commenti. Qualcun altro diceva: “Fatene fuori qualcuno, gli altri scapperanno”.


Meno 19 giorni

A metà dicembre, il collegio elettorale si era riunito e aveva formalizzato la vittoria di Biden. A Trump rimaneva solo una mossa: interrompere la conta dei voti al Congresso il 6 gennaio. “Statisticamente impossibile aver perso le elezioni del 2020”, twittò il presidente il 19 dicembre, mandando il messaggio decisivo che trasformò la ratifica al Congresso nello scontro finale: “Grande protesta a Washington il 6 gennaio. Venite, ci scateneremo”. Quell’esortazione, più di ogni altra parola o azione di Trump dopo le elezioni, sembrò elettrizzare i sostenitori più agguerriti nelle chat di gruppo e sui siti come TheDonald.win. Qualcuno lo interpretò come un ordine. Un informatore mandò volontariamente ai suoi contatti all’Fbi decine di scambi, il giorno dopo, tra persone che si identificavano come membri dei Three Percenters. Il tweet di Trump, insieme a un video che il presidente aveva pubblicato dopo, intitolato “Fight for Trump” (Combattete per Trump), venivano presi alla lettera come una chiamata alle armi, diceva l’informatore. Dai messaggi che l’informatore segnalava in una chat di gruppo su MeWe tra membri del gruppo paramilitare: “Il 6 gennaio è l’ultima opportunità che avremo. Ancora per poco, finché manteniamo il potere, abbiamo la possibilità di un’elezione contestata e il presidente ha lanciato un appello. Qui, fra due settimane, dobbiamo combattere. E’ per questo che è stata fatta tutta la preparazione”.
 
Lo stesso giorno, il 20 dicembre, l’Fbi ricevette una telefonata che segnalava che i sostenitori di Trump stavano pianificando online di portare armi a Washington e di arrestare i parlamentari. La chiamata di domenica pomeriggio venne gestita dal National Threat Operations Center dell’Fbi, una specie di centralino di smistamento delle segnalazioni di reati, in base a un documento dal titolo: “Minacce di azioni armate e aggressioni alla polizia di Washington dal 4 al 20 gennaio”. Il file venne aggiornato il pomeriggio successivo da un impiegato dell’Fbi che voleva riclassificare la segnalazione: “Più da Dt (terrorismo interno) che da Reati… La sezione reati ha ricevuto un numero significativo di segnalazioni tramite ‘Guardian’  in conseguenza delle minacce al Congresso e ad altri funzionari del governo”.
 
L’autore della telefonata, in base al documento dell’Fbi, disse che la gente si stava “organizzando per incontrarsi in determinati posti e portare armi a Washington per sopraffare la polizia  dal 4 al 20 di gennaio”. Su tre siti diversi, “si discute di reclutare persone, di dove incontrarsi, di portare armi e arrestare senatori e membri del Congresso e di fare processi all’aperto, in aree pubbliche”. La logistica – fino ai centri commerciali di Scranton, in Pennsylvania; Louisville, e Columbia, in South Carolina: i posti, cioè, dove si erano dati appuntamento per andare insieme a Washington – veniva definita su Discord, uno di questi siti. Gli utenti inserivano diverse volte la parola “pacifico” per evitare che i commenti venissero eliminati dai moderatori, diceva l’autore della telefonata, facendo un esempio: “Mitt Romney pacificamente è il primo da colpire”. L’autore della soffiata diede anche lo username di una delle persone che incitavano gli altri alla violenza.

Più tardi, la stessa sera, l’Fbi ricevette una chiamata simile, che era stata trascritta con il titolo: “Ulteriori informazioni sulle proteste a Washington, il 6 gennaio 2020”. In quella segnalazione, la persona che aveva chiamato informava l’Fbi che sul sito TheDonald.win si istigava alla violenza per il 6 gennaio 2021 in relazione al risultato delle elezioni”. Riguardo alle due segnalazioni congiunte, un funzionario dell’Fbi scrisse: “Nessuno di questi siti ha informazioni specifiche di quello che faranno una volta sopraffatta la polizia di Washington. Sui siti dicono di volerlo fare perché così si ‘fermerà il furto’”.
 
Martedì mattina, 22 dicembre – a meno di 48 ore dalla registrazione della prima telefonata nel sistema dell’Fbi – la minaccia venne archiviata, con la dicitura in alto: “Non richiede ulteriori indagini al momento”.  Un funzionario dell’Fbi ha detto che prima di archiviare la questione, l’Fbi aveva controllato i suoi database e intrapreso “azioni aggiuntive”, compresa quella di informare della segnalazione la polizia locale, la polizia del Campidoglio e le agenzie federali. La maggior parte delle segnalazioni che ricevevano conteneva “discorsi vaghi, protetti dal Primo emendamento”, disse il funzionario. I documenti dell’Fbi mostrano che il sito pro Trump TheDonald.win compariva diverse volte nelle soffiate che arrivavano al Bureau e nei documenti delle indagini. L’ufficio di Romney non ha trovato alcun documento che attestasse che erano stati avvertiti della segnalazione. Un funzionario dell’Fbi ha sottolineato che la segnalazione era stata passata anche alla polizia del Campidoglio.
 
Nel frattempo, la squadra dell’attivista Ali Alexander lanciava diversi siti web, tra cui MarchToSaveAmerica.com, per promuovere le manifestazioni a Washington il 6 gennaio. Il sito chiedeva esplicitamente ai sostenitori di marciare dalla Casa Bianca al Campidoglio alle 13. “Schieratevi con il presidente Trump e la coalizione #StopTheSteal”, si leggeva sul sito. “E’ in gioco il destino del nostro paese”.
 
Il sito elencava una coalizione di gruppi che, diceva, sostenevano l’iniziativa, tra cui Women for America First di Amy Kremer; Turning Point Action, un gruppo guidato dall’alleato di Trump Charlie Kirk, che prometteva di far arrivare a Washington 80 bus di giovani il 6 gennaio; e il Rule of Law Defense Fund, il ramo no profit per la raccolta di fondi della Associazione dei procuratori generali repubblicani, che mandava telefonate automatizzate, chiedendo alla gente di recarsi a Washington per gli eventi di quel giorno. Stop the Steal aveva anche ottenuto uno spazio autorizzato dove tenere un raduno sul lato orientale del Campidoglio il 6 gennaio. L’organizzazione lo aveva richiesto usando un altro nome. Sulle chat di gruppo degli estremisti, Brookie, Holt e McCord notarono che stava prevalendo un nuovo tono, più temerario. I sostenitori di Trump dicevano cose più estreme rispetto a prima – parlavano di essere dei cittadini soldati che avrebbero potuto morire per la causa.
 
Il 21 dicembre, McCord informò della sua ricerca i funzionari di Washington. Era abbastanza preoccupata, tanto da mandarne una copia anche ai suoi ex colleghi all’ufficio del procuratore federale a Washington e a un dirigente dell’antiterrorismo all’Fbi. Le fu assicurato che le sue segnalazioni sarebbero state inoltrate alle principali autorità di pubblica sicurezza.
 
Holt si concentrò sul linguaggio violento esplicito, scrivendo nella sua relazione che gli Oath Keepers stavano “intensificando” le pressioni sui loro coetanei perché si unissero a loro per decidere le elezioni con la forza, “preferibilmente con le armi”. “Non accadrà nulla se non FACCIAMO in modo che accada”, così iniziava uno scambio che Holt segnalava nella sua relazione, che fu inoltrata all’Fbi. “Quante altre str… avete bisogno di vedere… C’è solo un modo. Non sono gli striscioni. Non sono i raduni. Sono i proiettili, caz..!”, si leggeva nel post di una persona che si definiva un Oath Keeper. Holt e Brookie si accorsero presto del passaggio dalle minacce alla pianificazione. Membri di sedicenti gruppi paramilitari di tutto il paese condividevano piani per far arrivare convogli di manifestanti a Washington. Su MeWe circolava una mappa che mostrava tre punti di incontro – con il nome in codice di Cowboy, Minuteman e Rebel – per la “cavalleria Maga” che sarebbe arrivata il 5 gennaio. I Proud Boys e altri condividevano i punti di incontro lungo tutta la costa orientale. Alla Casa Bianca, Pence iniziò a dire ai suoi consiglieri che sapeva di essere nel mirino – Trump si aspettava che agisse.
 
Il presidente all’inizio aveva assunto toni concilianti. I miei collaboratori mi dicono che hai più potere di quanto pensi di avere, disse a Pence durante un incontro pochi giorni prima di Natale. Pence rispose ripetutamente che non credeva che ci fosse modo di bloccare la ratifica, ma che avrebbe valutato le argomentazioni. Presto il vicepresidente e la sua squadra divennero oggetto di pressioni da parte di un gruppo di avvocati pro Trump, tra cui John Eastman, avvocato conservatore che aveva scritto un editoriale in cui metteva in dubbio la cittadinanza americana di Kamala Harris e se fosse o no idonea a candidarsi alla vicepresidenza. Dietro le quinte, anche il capo di gabinetto della Casa Bianca fomentava lo scontro ormai imminente tra Trump e il suo vicepresidente. Mark Meadows “cambiava versione a seconda dell’interlocutore a cui si rivolgeva. A Pence diceva: ‘Sappiamo come vanno le cose. Calmeremo la situazione. Non preoccuparti. Stiamo abbassando i toni’”, ha dichiarato un alto funzionario dell’amministrazione. “E poi diceva a Trump: ‘Sto dicendo a Pence che lo deve fare. Pence lo farà. Andrà benissimo. Eastman ha ragione. Lo faremo fare a lui’”. Eppure, molti collaboratori della Casa Bianca e della campagna elettorale non vedevano il 6 gennaio come una data critica e non erano preoccupati delle violenze. Lo scopo del tweet di Trump in cui diceva che il 6 gennaio “si sarebbero scatenati”, secondo loro, era solo quello di attirare una grande folla per fornire alle telecamere una contro narrazione degli eventi di quel giorno in Campidoglio.
 
Un alto funzionario dell’Amministrazione ha detto di aver capito quanto l’attenzione di Trump per il 6 gennaio stesse mobilitando i suoi sostenitori solo quando sua madre, che viveva in uno stato del sud, gli disse verso la fine di dicembre che i suoi amici sarebbero arrivati in autobus. “Molte persone della chiesa andranno a Washington il 6 gennaio: tu ci sarai?”, gli aveva chiesto.

 

Hannah Allam, Devlin Barrett, Aaron C. Davis, Josh Dawsey, Amy Gardner, Shane Harris, Rosalind S. Helderman, Paul Kane, Dan Lamothe, Carol D. Leonnig, Nick Miroff, Ellen Nakashima, Ashley Parker, Beth Reinhard, Philip Rucker, Craig Timberg

Traduzione di Raffaella Menichini e di Alessia Manfredi - Copyright Washington Post

 

Di più su questi argomenti: