Il precedente

La passeggiata di Assad ad Aleppo e cosa succede quando prevale la “fatica” occidentale

Paola Peduzzi

Grazie al sostegno militare di Russia e Iran, il dittatore siriano ora punta a una riabilitazione internazionale. I numeri e le storie dell'orrore contro i civili

Bashar el Assad, presidente della Siria, è stato ad Aleppo una decina di giorni fa, la sua prima visita da quando la città è stata ripresa dal regime, alla fine del 2016, con l’aiuto della forza aerea russa e delle milizie sostenute dall’Iran. Assad ha fatto una passeggiata con la sua famiglia – sua moglie Asma, due figli e una figlia: tutti eleganti, tutti sorridenti – nei famosi mercati coperti di Aleppo che ufficialmente sono “in restauro” ma che sono in macerie a causa della guerra cosiddetta “della riconquista”. Il dittatore ha poi inaugurato una centrale elettrica rimessa in funzione (dagli iraniani) dicendo orgoglioso che questo sito è in grado di produrre 200 megawatt di elettricità: nel 2012, prima  che Assad iniziasse la guerra contro il suo stesso popolo, ne produceva 1.000.

La passeggiata di Aleppo ha riaperto il dibattito sulla riabilitazione di fatto del regime siriano, dopo undici anni di guerra, 350 mila civili uccisi, 6,8 milioni di rifugiati all’estero e 6,7 milioni di sfollati dentro il paese (i dati sono dell’Onu, gli abitanti della Siria sono circa 17 milioni). Washington ribadisce, quando viene interpellata sulla questione, che non c’è alcun processo di riabilitazione in atto: la Siria continua a essere sulla lista americana degli stati sponsor del terrorismo. Ma le intenzioni dei paesi alleati di Damasco, la Russia di Vladimir Putin e l’Iran di Ebrahim Raisi, sono diverse e l’incontro di ieri a Teheran tra i due leader aveva anche lo scopo di rinsaldare il loro potere in Siria e su Assad. Anche Recep Tayyip Erdogan, presidente turco, era presente al vertice: lui è sul fronte opposto in Siria, è contro Assad e fa delle operazioni militari in territorio siriano (ormai da sei anni, ora ha ottenuto margini di manovra maggiori in cambio del suo assenso all’allargamento della Nato) non tanto per contrastare il regime ma per cacciare i curdi dal nord-ovest della Siria. La guerra in Ucraina serve a Erdogan, che vuole fare il gran mediatore tra Mosca e Kyiv, come arma negoziale in Siria: l’esito non è certo, ma di sicuro questi tre interlocutori, pur avendo posizioni e interessi diversi, sono d’accordo nel trattare direttamente tra loro, escludendo chiunque altro, soprattutto le Nazioni Unite. Si vedono con una certa costanza (non troppa, perché ci sono dei momenti in cui anche per loro tre incontrarsi è complicato) all’interno dei colloqui di Astana, capitale del Kazakistan (oggi si chiama Nur-Sultan).

Fin dall’inizio dell’invasione di Putin in Ucraina abbiamo fatto riferimento al precedente siriano. Il presidente russo ha utilizzato lo stesso metodo sperimentato in Siria anche in Ucraina, anche se su più larga scala e con un’attenzione dell’occidente di cui i siriani non hanno mai goduto. Putin ha sostenuto il regime siriano con i suoi aerei, ha bombardato obiettivi civili, ha negato davanti alla comunità internazionale di averlo fatto (c’erano terroristi da colpire anche dentro gli ospedali, ovviamente), ha piegato intere cittadine assediandole e affamandole fino a costringerle alla resa, ha consegnato migliaia di persone “sospette” alle forze siriane.

Nella prigione di Saydnaya, a trenta chilometri da Damasco, soprannominata “il mattatoio” e gestita dal regime, ogni settimana almeno cinquanta prigionieri di guerra (civili) vengono prelevati dalle loro celle, picchiati e impiccati, scrive Amnesty International. Un paio di anni fa Omar Alshogre, un ragazzo siriano sopravvissuto, aveva raccontato che era stato incarcerato a 15 anni e gli erano state strappate tutte le unghie. Poi era stato rilasciato, ma a 17 anni era stato arrestato di nuovo insieme a tre suoi cugini per “attività cospiratorie” contro il regime: erano stati tutti appesi a testa in giù, avevano subìto scariche elettriche, erano stati obbligati a morsicarsi tra loro fino a farsi almeno sanguinare. Due cugini sono morti, del terzo non ci sono più state notizie.

La brutalità di Putin si è innestata su quella di Assad, il risultato è una cronaca di orrori indicibili, che con il passare del tempo – la chiamiamo “fatica” noi qui che osserviamo da lontano – sono scomparsi dai notiziari, dalle agende dei vertici internazionali, dalle priorità, tanto che ora Assad passeggia sorridente per Aleppo come se non fosse artefice e complice delle macerie che ha intorno. Il precedente siriano non parla soltanto di come Putin fa la guerra, ma anche di qual è il prezzo dell’inazione della comunità internazionale e quello dell’impunità di crimini conclamati. Ad al Hajar al Aswad, una cittadina nel sud della Siria che è stata testimone di tutti gli stravolgimenti di questo conflitto, compreso l’arrivo dello Stato islamico e comprese le centinaia di vittime, è appena arrivata una troupe della casa di produzione di Jackie Chan, uno dei più famosi attori e produttori cinesi. Si girerà tra queste macerie un film che serve, secondo le intenzioni esplicite del regista, a celebrare il Partito comunista cinese e le sue operazioni nel mondo. All’inaugurazione delle riprese è arrivato l’ambasciatore cinese in Siria, che ha sempre tenuto buoni rapporti con il regime di Assad.
 

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi