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Nel rifugio bavarese

I leader che arrivano al G7 hanno guai a casa loro

Paola Peduzzi

I capi di stato si incontrano nello stesso castello di Elmau che li accolse nel 2015. Le conversazioni, allora come oggi, verteranno sulla Russia, che già sette anni fa aggrediva l'Ucraina. Le debolezze di Biden, Macron, Johnson e del padrone di casa Scholz

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Il direttore del castello di Elmau, incastonato nelle Alpi bavaresi, sorride giulivo a ogni intervistatore: qui domenica arriveranno i capi di stato del G7, proprio come accadde nel 2015, “un bel posto è un buon prerequisito per belle conversazioni”, dice orgoglioso. Le conversazioni allora come oggi verteranno sulla Russia, che nel 2014, a causa dell’invasione in Ucraina, era stata estromessa dal G8 e non è più stata reintegrata – Mosca sostiene di non voler più stare in questo consesso, ma nel 2020 Donald Trump provò a riaccoglierla, poi il coronavirus cambiò le priorità. In ogni caso la foto ricordo del 2015 sembra scattata un secolo fa, prima della Brexit, prima del trumpismo, prima del macronismo (in Italia c’era il governo Renzi), ma il fatto che all’ordine del giorno ci fosse sette anni fa come oggi l’aggressione della Russia all’Ucraina rende il confronto infinitamente più mesto: la minaccia che non era stata affrontata allora è diventata  una guerra su tutto il territorio ucraino. Ma anche la consapevolezza dei leader del G7 si è trasformata: questo vertice viene dopo la decisione europea di dare lo status di candidato all’Ucraina per entrare nell’Ue e prima del vertice di Madrid che sancirà l’allargamento a nord-est della Nato.

 
E a ben vedere buona parte dei leader che si riuniranno in questi prati verdi troverà rifugio nella rinnovata unità, un sogno a casa propria. Joe Biden, presidente americano solidale in termini di armi e di fondi all’Ucraina (sono arrivati i missili Himars tanto attesi), arriva con una popolarità bassa, un coro di politici e commentatori (di area liberal) che già chiede al presidente anziano di non candidarsi, una sentenza della Corte suprema che ribalta la protezione giuridica dell’aborto a cinque mesi dalle elezioni di metà mandato e una politica di sicurezza energetica da declinare mentre inflazione e prezzi sembrano fuori controllo non soltanto a causa della guerra ma per l’eccessiva leggerezza dell’Amministrazione nei confronti della minaccia inflazionistica.  

 

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Boris Johnson, premier britannico determinatissimo nell’aiutare Kyiv e nel sanzionare e isolare Vladimir Putin, arriva dopo una brutta sconfitta elettorale in due suppletive conquistate una dal Labour e una dai liberaldemocratici: il presidente dei Tory si è dimesso, si annuncia un’altra resa dei conti interna al partito del premier e sul premier stesso, sempre meno efficace e convincente nelle politiche economico-sociali di cui si è fatto araldo (per non parlare del disastro Brexit).

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Anche sul  presidente francese Emmanuel Macron aleggia questo senso di fragilità interna dopo che la coalizione che fa capo al suo partito ha perso la maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale: anche qui è materia di equilibrio interno, ma l’esperienza insegna che non c’è una separazione netta tra i guai a casa e le politiche che si perseguono a livello internazionale, ancor più se si tratta di Macron, che in questa crisi si è posto come mediatore e incassa musi lunghi dagli ucraini e sberleffi dai russi.

 

Il padrone di casa, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, è forse il meno a fuoco di questi leader sia nella politica della Germania sia nella gestione della guerra. Scholz è stato sospinto, a fatica, ad accettare la candidatura dell’Ucraina nell’Ue e a mettere mano alla dipendenza energetica nei confronti della Russia, e ancora tentenna.
 

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