Merkel vs Trump

Paola Peduzzi e Micol Flammini

La Germania prende la presidenza dell’Ue, l’inquilino della Casa Bianca cerca la rielezione. La Cancelliera ha un piano "per fare l'Europa di nuovo forte", ora che l’America non fa più l’America

Quando Donald Trump fu eletto presidente degli Stati Uniti, alla fine del 2016, la cancelliera tedesca Angela Merkel disse: amici europei, rimbocchiamoci le maniche e impariamo a badare a noi stessi, ché nei prossimi anni non potremo fare affidamento sull’America. Ci piace pensare che non sia un caso il fatto che la Germania assuma per la seconda metà del 2020 la presidenza di turno dell’Unione europea, proprio quando il presidente dell’America si gioca la rielezione. Anzi se il diavolo sta nei dettagli, vuole proprio portarci al confronto secco tra due leadership, la Merkel di qui e Trump di là, e due visioni del mondo divergenti. E per quanto paradossale possa sembrare, l’atteggiamento crepuscolare è quello di Trump, che pure ha solo un mandato sulle spalle e vuole fortissimamente il secondo, mentre la Merkel che è al governo da 15 anni ha ancora la voglia di fare rivoluzioni, come quella di rivedere il proprio approccio all’integrazione europea e all’austerità in nome di una solidarietà indispensabile per il continente. Forse il dettaglio importante è proprio questo: la capacità di smentirsi per migliorare l’alleanza europea della Merkel, o la cocciutaggine dello scontro permanente di Trump. Dal confronto – impietoso, sì – tra Merkel e Trump emerge anche la chance che oggi ha l’Europa intera: fare da contrappeso negli scontri/incontri tra superpotenze, Cina, America, Russia. Una terza via della geopolitica. Le superpotenze, come sappiamo, non si sostituiscono (ma poi voi sostituireste l’America con la Cina o la Russia?) ma si controbilanciano. E per l’Europa questa è un’occasione resa esplicita con il no che la Merkel ha detto a Trump al G7 a Camp David. Ci sono le motivazioni contingenti: la necessità di preparare l’incontro; la pandemia che non è finita; ma anche e soprattutto: non far parte di un consesso disegnato volutamente in chiave anti cinese e l’opposizione a una riammissione della Russia nel G7, come vorrebbe Trump.

 

Ricapitolando

Con l’arrivo di Trump è cominciata una nuova attività diplomatica che consiste nel prendere le misure del trumpismo in tutti i contesti internazionali, dalla Nato alle truppe in Siria, dai consessi G-qualcosa ai dazi. Questa attività è stata immortalata in immagini epiche (quelle dei G7 per dire) e in dichiarazioni mai sentite, e forse una sintesi è stata data un paio di giorni fa dal premier canadese, Justin Trudeau: gli hanno chiesto che cosa pensasse della risposta di Trump alle proteste che stanno incendiando l’America, e lui ha fatto una pausa lunga prima di rispondere. Una pausa infinita: siamo alla fase in cui non ci sono più le parole. Soprattutto: non c’è più una leadership americana riconoscibile e riconosciuta. Jan Techau del German Marshall Fund di Berlino ha detto: “L’America è sempre stata molto decisa nella difesa del proprio interesse, ma è sempre stata anche generosa. Ora questa generosità sembra scomparsa, e questo significa che l’America non è più al servizio del pianeta”. L’emergenza del coronavirus l’ha dimostrato, ma ogni giorno riserva una nuova sorpresa – ed è finita la manica da rimboccare, oramai. Trump ha gettato la colpa della pandemia sulla Cina e sull’Europa e vede il contagio delle proteste anti razzismo in Europa come l’ennesimo colpo basso degli europei alla sua presidenza.

 

La terziarietà

Il rifiuto della Merkel di partecipare al G7 mostra la strategia europea per controbilanciare gli scontri tra superpotenze

Trump avrebbe voluto organizzare il G7 a Camp David entro giugno, ma ha dovuto rinunciare perché la Merkel ha detto che non sarebbe andata. La Francia di Emmanuel Macron è stata possibilista, così come il Regno Unito di Boris Johnson (che deve sostituire il mercato unico europeo con un accordo commerciale con l’America). Ma la Merkel è stata decisa: no, grazie. La cancelliera non ama gli incastri geopolitici che Trump sta cercando di fare per costruire una nuova alleanza contro la Cina: questo multilateralismo à la carte, a piacimento delle priorità di Trump, è per la cancelliera quasi offensivo. Per questo ha tagliato corto anche sulla possibilità di riaprire i consessi internazionali, in particolare il G7, alla Russia. Come a dire: Trump non ci terrà prigionieri mentre combatte contro la Cina. L’Alto rappresentante per la politica estera, lo spagnolo Josep Borrell, ha precisato: “Vorrei sottolineare il fatto che le prerogative di chi presiede il G7, in questo caso gli Stati Uniti, prevedono inviti a ospiti che riflettono le priorità della presidenza. Ma cambiare le adesioni o cambiare il format su base permanente non è tra queste prerogative”. E la questione russa è diventata una favola di Esopo: non siete voi che non volete riammetterci, ha detto il vicerappresentante russo all’Onu Dmitry Polyanskiy, siamo noi che non vogliamo venire.

 

E se poi il terzo gode

Lo scontro tra Trump e la Cina potrebbe avere un effetto deleterio sull’Europa, a cominciare da evidenti ragioni economiche. Ma per il momento l’Europa ha deciso di non farsi trascinare nella contesa. Londra, che è contrarissima alla riabilitazione della Russia, ha anche annunciato di voler accogliere i cittadini di Hong Kong che scappano ora che la Cina ha deciso di annullare di fatto l’indipendenza della ex colonia britannica. La reazione della Cina è stata immediata: l’ingerenza del Regno Unito negli affari di Hong Kong “gli si rivolterà decisamente contro”. Per quanto il posizionamento di Londra nelle faccende globali sia viziato dalla Brexit, l’atteggiamento di Johnson rispecchia bene quello europeo. Ribadire i valori occidentali e non farsi trascinare nella guerra americano-cinese. L’ex consigliera di Barack Obama Julianne Smith ha detto al New York Times: Trump “continua a pensare che gli alleati possono essere maltrattati e che può allo stesso tempo contare su di loro”. Il rifiuto della Merkel ad andare a Camp David “dice molto di quanto molti leader siano esausti: hanno visto quanto è piccolo il ritorno sull’investimento del creare una relazione con Trump”. In particolare, secondo le molte fonti del corrispondente a Bruxelles del New York Times Steven Erlanger, a concretizzare il rifiuto tedesco al G7 è stato il ritiro unilaterale di Trump dall’Organizzazione mondiale per la sanità. L’approccio è quello utilizzato anche con l’accordo con l’Iran e con il trattato di Parigi sul clima. Ma se quelle decisioni sono state subite dall’Europa, quest’ultima ha fornito l’occasione all’Europa di costruire un proprio posizionamento nuovo. Thomas Wright della Brookings Institution ha detto a Erlanger che di fronte all’annuncio sull’Oms, la Merkel ha deciso che “se Trump vuole muoversi unilaterlamente, noi non saremo qui a sostenerlo”. L’analista tedesco Ulrich Speck è ancora più diretto: “La Merkel ha rinunciato alla pretesa che un cancelliere tedesco debba per forza lavorare con un presidente americano, a qualsiasi costo”. Per la prima volta, l’Europa vuole stabilire un prezzo, e non seguendo un istinto anti atlantista, anzi al contrario. Se il presidente americano si comporta in modo non americano, la sua leadership non è più riconoscibile, né riconosciuta. E’ l’ultima fase delle maniche rimboccate.

 

La presidenza tedesca dell’Ue

“Rimboccarsi le maniche”, “raccogliere i cocci”, non partecipare alla guerra Trump-Cina

L’ultima volta che Angela Merkel aveva presieduto un Consiglio dell’Unione europea era il 2008 e sembra quasi arrivi sempre lei nel mezzo di una crisi a cercare di “raccogliere i cocci”. Nel 2005, ha raccontato il cristianodemocratico Gunther Krichbaum a Politico, i francesi e gli olandesi avevano rigettato il progetto di una Costituzione europea, sembrava un momento insuperabile, da dove si potevano ricostruire i sogni europei dopo due no così forti? E infatti ci volle tempo, ci vollero tre anni e la Merkel pose le basi per una nuova intesa, “raccolse i cocci”, come dice lei, e ha fatto “tutti i preparativi essenziali” per trasformare il fallimento della Costituzione in un nuovo trattato europeo, siglato poi sotto la successiva presidenza, quella portoghese, a Lisbona. Quest’Europa, e anche questa Merkel, è diversa e lo sarà anche questa presidenza, che avrà al centro gli interessi europei e in parte anche le nuove missioni dell’Ue che sanno un po’ di rivoluzione, ma anche di liberazione. Questa nuova Angela Merkel, che si sta comportando da cancelliera della Germania ma anche da presidente di tutta l’Europa, ha capito che era arrivato il momento di ripensare la sua strategia e le sue priorità. Di svincolarsi dall’asse dei frugali nel momento in cui stavano diventando avari e di dare una spinta fortissima verso il futuro dell’Ue. Certo, c’è stato il virus. Certo, ha un ministro delle Finanze che è un socialdemocratico e ha influito. Certo, in Francia c’è Emmanuel Macron e ha influito anche lui. Certo, c’è la sentenza di Karlsruhe. Ma Angela Merkel è cambiata e ha deciso che è pronta a salvare l’Unione europea, e il semestre che inizia il primo luglio servirà anche a questo. Ma non sarà un po’ troppo tedesca questa Ue? Già c’è Ursula von der Leyen, presidente della Commissione, adesso anche il debutto di Berlino al semestre europeo. La Germania durante questa crisi è stata la nazione che più ha dimostrato di saper cambiare e di poter rimodellare il futuro dell’Unione europea. Dopo una serie di presidenze di paesi più piccoli come la Romania, Finlandia e l’uscente Croazia – se ne dicono di ogni dei risultati scadenti di Zagabria – era arrivato il momento di un paese forte. Forse è questa l’occasione dell’Ue, e non va sprecata.

 

Il logo e il motto

Il programma di Berlino per il prossimo semestre vuole consolidare la volontà merkeliana del salvarsi tutti insieme

Questa presidenza ha già un soprannome, sarà per tutti la corona presidency, perché per forza dovrà occuparsi di questo, di gestire il rientro dell’Unione europea nella normalità. E ci sarà tanto, tantissimo, da fare, anche per questo c’è chi sospira pensando che il semestre dal primo luglio per fortuna toccherà alla Germania, che dalla scorsa settimana ha anche fatto sapere quale sarà il suo motto. Ne ha uno in tedesco e uno in inglese che non sono l’esatta traduzione l’uno dell’altro, ma servono a mettere un po’ di cose in chiaro e ci rivelano l’altro lato della grandezza, quello merkeliano. In tedesco: “Gemeinsam. Europa wieder stark machen”. In inglese: “Together for Europe's recovery”, che è un modo un po’ più brussellese per dire: “Insieme. Rendere di nuovo forte l’Europa”. Chi vuol capire, capisca. Intanto la cancelliera ha messo da parte le ritrosie e sembra essere pronta a fare di questo semestre il periodo del cambiamento che quasi abbiamo intravisto in queste ultime settimane. E’ già pronto anche il logo, un nastro di Möbius, quella superficie non orientabile, che non inizia e non finisce mai, che non ha nulla a che vedere con il simbolo dell’infinito, ma che è fatto di traiettorie intricate e deve simboleggiare “azioni comuni che emergono continuamente dalle diversità dell’Unione europea”, un inno al compromesso, alle soluzioni, all’unione e alla solidarietà. E’ pronto anche il sito.

 

Il programma

Berlino ha già delineato quattro categorie di priorità, che sono molto cambiate rispetto a quelle annunciate prima dello scoppio della pandemia. Primo: la Germania si occuperà della gestione immediata della crisi e della ripresa economica per cercare le risposte finanziarie più giuste. Secondo: ci sono fascicoli che non possono essere rinviati, come il bilancio pluriennale e i negoziati con il Regno Unito. Terzo: Ambiente, green deal, strategia industriale, digitalizzazione e riforma dell’immigrazione. Quarto: stato di diritto, ossia Ungheria e Polonia. A questo si sono aggiunte le dichiarazioni di Angela Merkel e dei suoi ministri. Jens Spahn, ministro della Sanità, ha detto che Berlino si dedicherà anche a rafforzare il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie. Anche la cancelliera ha detto che vorrebbe che si mettessero le basi per un sistema sanitario integrato e parificato che renda gli ospedali di tutta l’Ue forti in egual misura. Ci sono anche le questioni di politica estera, soprattutto questioni cinesi, e la cancelliera non ha intenzione di rinviarle. Il ministro degli Esteri Heiko Maas ha detto che Berlino intende sviluppare una “solida strategia europea sulla Cina”, nel mezzo della presidenza ci sarà anche un vertice, previsto il 14 settembre, tra i leader europei e il presidente cinese Xi Jinping. “Credo che il modo migliore per esercitare un'influenza su Pechino sia chiarire che l’Ue è unita e che non è possibile trattare con i singoli paesi al di fuori di questa unità”, ha detto Maas. E poi sì, c’è l’America. Scrive il Wall Street Journal che Berlino ormai è sicura che cercare di lavorare con Trump sia inutile, la sua strategia sarà ignorarlo fino a novembre.

 

Scusatemi, svedesi

Non è facile dire “ho sbagliato” e, nonostante i tempi, non ne abbiamo sentiti molti. Quando Anders Tegnell, epidemiologo svedese e capo della strategia per la gestione del coronavirus, ha detto in radio che le cose avrebbero potuto essere fatte in maniera diversa e che “con le nuove conoscenze che abbiamo oggi” la risposta non sarebbe più quella svedese, ma un'altra a metà strada tra la Svezia e quello che ha fatto il resto del mondo, è stato come dire rinunciamo, in parte, alla nostra eccezionalità, al nostro stare distanziati perché lo facciamo sempre, al nostro modo di combattere un virus sconosciuto diverso dal resto del mondo. Gli svedesi andavano fieri della loro strategia diversa, con la faccia del dottor Tegnell vengono anche stampate le magliette, e lui si è sfilato di dosso un po’ della miticità che si portava dietro dall’inizio della pandemia. Si è trasformato in un caso di scontro politico, il premier Stefan Löfven ha detto che ci sarà un’inchiesta e l’opposizione ha subito attaccato: ma come non avevamo fatto tutto bene noi e tutto male gli altri? Anche l’epidemiologo Neil Ferguson, a cui era stata affidata la strategia nel Regno Unito, poi dimessosi per aver violato, per amore, l’isolamento, in un recente articolo ha commentato il dato svedese. Ha detto che era proprio così che aveva pensato di fare il Regno Unito, così si sarebbe voluto comportare, prima di ripensarci. La strategia di Stoccolma, fatta di tante raccomandazioni, qualche chiusura, moltissimi appelli al senso civico, ha portato a 40 mila contagiati, i contagi crescono al ritmo di duemila al giorno, e a 4.500 morti. Un numero molto più alto se confrontato ai vicini del nord che adesso stanno aprendo le loro frontiere a tutti, tranne agli svedesi. Neppure l’economia si è salvata, questo virus è stato simmetrico e anche in Svezia è previsto un crollo del pil del 7 per cento, e sembra quasi il finale perfetto di quel fenomeno che avevamo chiamato la sventatezza svedese: un passo indietro inaspettato. Ma senza esagerare.

 

L’Ue riscopre l’arte al drive-in, al mercato di Praga è stato un successo. E anche questa è una cosa americanissima

La Repubblica ceca è stata tra i primi paesi a riaprire, anche tra i primi a chiudere con pochissimi casi e spesso le due cose sono correlate. Quando con cautela la vita di Praga è ricominciata però sembrava mancarle qualcosa: il teatro. I cechi vanno tantissimo a teatro e se già erano stati senza per due mesi, attendere ancora sembrava impossibile. Così hanno pensato di ricorrere a una tradizione antica, nata non proprio per il teatro che ha bisogno dei suoi spazi e dei suoi palchi, ma se tutta la nuova normalità deve essere appunto nuova, si sono chiesti attori e registi, perché non provare il drive-in? E’ stato un successo. Il primo esempio ambizioso è stato quello al mercato ortofrutticolo di Praga, dove gli spettatori, da dietro i loro volanti hanno assistito agli spettacoli. E c’è anche un programma ormai che copre quasi tutta l’estate e che si è esteso ai cinema, e anche ai concerti. In Europa l’idea si sta facendo sempre più comune, è inconsueta, certo, ma è un punto di partenza che ha della nostalgia. Si applaude suonando il clacson e si guarda ammirati gli attori che devono anche imparare a recitare in modo diverso. Pause più lunghe, gesti più enfatici. E’ tutto un di più che non dispiace affatto.

 

Questo drive-in delle arti che l’Europa sta riscoprendo è nato in America, ed è a quell’immaginario che facciamo riferimento anche noi quando ci manca l’America, quando non la riconosciamo più. Il trumpismo vuol divorare ogni cosa, ma l’Europa sta cercando una museruola.