Angela Merkel con Barack Obama (foto LaPresse)

C'è un G2 nel G7

Da Atene a Kiev. Ecco cosa non gradisce l'America della leadership di Merkel

Marco Valerio Lo Prete
Washington s’interroga sul troppo cauto “leading from the centre” di Berlino. Il gusto tedesco per il compromesso. Business, cultura, ideologia. C’è un G2 nel G7.

Roma. L’Amministrazione americana di Barack Obama è inseguita almeno dal 2011, dai tempi dello sgangherato intervento militare in Libia e di una sfortunata intervista al New Yorker di un consigliere del presidente, dall’etichetta “leading from behind”. Inseguita cioè dall’accusa – perché tale essa è, se rivolta alla prima potenza mondiale – di guidare gli eventi mondiali dalle retrovie o da dietro le quinte, senza esporsi troppo o addirittura inseguendo gli alleati. Sembrerà un paradosso ma oggi questa stessa Amministrazione, alla vigilia del G7 che inizia domani nello Schloss Elmau, un ex castello trasformato in una lussureggiante spa incastonata nelle Alpi bavaresi, continua a scrutare insospettita l’atteggiamento del principale partner dell’Europa continentale, la Germania. La prima potenza economica dell’Unione europea, che da anni guida le danze sulla crisi dell’euro e con la quale è fondamentale interloquire quantomeno per gestire il fronte russo-ucraino, che tipo di leadership predilige? “Leading from the centre”, così quest’anno la ministra della Difesa, Ursula von der Leyen, ha sintetizzato lo status del suo paese nello scacchiere internazionale. “Ciò vuol dire contribuire con le proprie migliori risorse e capacità a forgiare alleanze e partnership”. Si tratta di un lento ma ufficiale distanziamento dall’atarassia che nel 2014, in un famoso discorso, perfino il presidente della Repubblica federale Joachim Gauck aveva criticato. Guidare dal centro, però, senza chissà quali fughe in avanti, può apparire estenuante agli osservatori esterni. E se ieri Angela Merkel parlava di un “lavoro intenso e continuo” in corso per evitare il crac di Atene, commentatori e mercati non sembravano apprezzare.

 

Anche ieri le Borse europee hanno chiuso in rosso, dopo un’altra settimana conclusasi senza intesa tra Atene e creditori internazionali. Mentre commentatori pur distanti fra loro come Francesco Giavazzi (Corriere della Sera) e Mariana Mazzucato (Repubblica) criticavano l’ennesimo compromesso al ribasso. Il liberista Giavazzi evidenziando “il rischio” di tenere nell’euro “un paese che ha liberamente deciso di non modernizzarsi”; Mazzucato, fan dello stato-innovatore, criticando “la mancanza di un piano di crescita e investimenti” paneuropeo. Perché dunque Merkel, che nei negoziati con Tsipras è in posizione di forza, ha insistito per mesi con lo schema extend and pretend? Perché pure sull’Ucraina, da Berlino, si alternano toni duri con Mosca (per Merkel la partecipazione della Russia al G7 è “al momento inconcepibile”) e aperture inedite a Putin (due giorni fa il ministro degli Esteri Steinmeier)? 

 

[**Video_box_2**]Parke Nicholson, dell’American Institute for Contemporary German Studies, sostiene che quello della “potente Germania” è per ora soltanto “un mito”. Un’ipotesi “cinica” addirittura ritiene che i leader del paese siano “catturati dalla lobby domestica degli affari”; a ciò si aggiunge l’esigenza di non essere “percepiti come dominatori” in Europa; infine una leadership “impreparata ad assumersi rischi”. “Nel lungo termine – conclude Nicholson su Foreign Affairs – la Germania deve riconoscere che non può restare una potenza buona solo per convocare riunioni e fare affidamento all’iniziativa di altre potenze influenti”. Un’altra teoria vuole che la riluttanza tedesca non sia questione di debolezza, ma celi una volontà di emancipazione dall’ombrello americano. A Washington non passano inosservati report come quelli dell’Istituto tedesco per la Sicurezza e gli Affari internazionali che suggeriscono alla cancelliera di perseguire un “ordine paneuropeo” rispettoso dell’“ordinamento politico interno” degli stati, Russia inclusa.

 

Poi c’è una tesi ancora più radicale: Washington scalpita perché su Atene si evitino “incidenti”, ma è grazie alla laboriosità pedante di queste trattative con i partner dell’euro, condotte triangolando con la tecnocrazia brussellese, che Berlino sta modificando la natura stessa dei nostri paesi. Trasformandoli in “stati basati sul consolidamento” delle finanze pubbliche (cit. Wolfgang Streeck), adatti alle intemperie della globalizzazione. Più che alla Grecia, guardare all’Irlanda per credere: S&P’s ieri ha alzato il suo rating sul debito a lungo termine da A ad A+. A Merkel piacendo.

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