L'altra Ucraina. 1936, quando le sorti dell'Europa si giocavano in Spagna

Siegmund Ginzberg

Prima della Guerra civile c’era stata l’epidemia. Il dilemma: mandare o no armi ai repubblicani aggrediti dalle falangi di Franco? Anche allora diplomazia impotente, propaganda e fake news

Alle elezioni politiche il Fronte popolare era stato miracolato. A sorpresa, contro ogni aspettativa, a dispetto di tutti i sondaggi. Un po’ come Zelensky che nel 2019 si era visto eleggere presidente al ballottaggio col 73 per cento dei voti. La sinistra spagnola nel 1936 aveva ottenuto 263 deputati (151 repubblicani, 88 socialisti, 14 comunisti, 10 indipendenti di sinistra). La destra ne aveva ottenuti 156 (101 al Ceda, la Confederazione spagnola delle destre autonome, ultracattolica, 15 Carlisti, 13 monarchici di Calvo Sotelo, 27 indipendenti). In mezzo stavano 54 centristi. Che però non contavano nulla perché la sinistra aveva la maggioranza assoluta da sola, malgrado che in termini di voti fosse risultata quasi pari alla destra (4.700.000, pari al 47 per cento), contro 4.500.000, pari al 46 per cento). La destra, che era sotto choc per la sconfitta inattesa, cominciò subito a tramare un colpo di Stato, sondando i generali. Veniva naturale: di golpe e dittature militari la Spagna ne aveva conosciute diverse negli anni precedenti. Finì in una guerra civile feroce e sanguinosa. A cui erano appese le sorti di tutta l’Europa.

 

La continuazione di una politica atroce. Non era pronta a governare la sinistra. Non era disposta ad accettare il risultato delle urne la destra

   
La guerra atroce era del resto la continuazione di una politica atroce. Non era preparata a governare la sinistra. Non era disposta a mandare giù un risultato sfavorevole nelle urne la destra. Nel solo Partito socialista litigavano due leader socialisti che si odiavano tra loro, molto ma molto peggio che Veltroni e D’Alema: Francisco Largo Caballero e Indalecio Prieto. C’erano, l’uno contro l’altro armati, due potentissimi sindacati di sinistra: la Ugt socialista e la Cgt anarchica, e due partiti comunisti, quello ortodosso fedele alla Russia e quello trotskista. C’era il nazionalismo basco, che aveva deciso – contro il governo di sinistra – di espropriare le terre, e c’era il nazionalismo catalano, ancora più ai ferri corti con Madrid. Oltre a un’infinità di altri gruppi, gruppuscoli, corporazioni e campanili. 

  

“Messisi tutti a giocare ai soldati, non si rendevano conto che avrebbero voluto partecipare al divertimento anche i soldati veri”

   
“Tutti i partiti (meno i repubblicani) stavano entrando in quel pericoloso e stupido gioco. C’erano milizie catalaniste e dei nazionalisti baschi, i requetés, centurie falangiste, comuniste, socialiste […] Gioco pericoloso perché […] ancorché in formato giocattolo, incitava alla guerra. E gioco stupido, perché, messisi tutti a giocare ai soldati, non si rendevano conto che avrebbero voluto partecipare al divertimento anche i soldati veri”, scrive nel suo diario di quegli anni Manuel Azaña Díaz, che, in quanto leader del partito più votato, fu prima capo del governo delle sinistre poi presidente della Repubblica. 

     
I massacri e gli assassinii degli avversari fecero il resto. L’uccisione di oltre 12.000 preti certo non incoraggiò la simpatia dei cattolici. L’alzamiento dei generali aveva seguito di pochissimo l’efferata uccisione del più visibile esponente della destra in Senato, Calvo Sotelo. Aveva appena pronunciato un discorso alle Cortes in cui lamentava che nel reprimere la rivolta armata dei minatori nelle Asturie e quella autonomista in Catalonia, il governo fosse stato di mano troppo leggera. In realtà nelle Asturie il generale Lopez Ochoa si era distinto ordinando fucilazioni indiscriminate, di massa. Ma troppo poche, niente rispetto alle “40.000 fucilazioni della Comune che [alla Francia del 1871] avevano assicurato sessant’anni di pace sociale”. Prelevato a casa sua, costretto a salire su una camionetta della Guardia civil, Calvo Sotelo fu liquidato con due colpi alla tempia. Avevano creato un delitto Matteotti a scapito del governo delle sinistre. Un altro gruppo di miliziani di sinistra a Madrid aveva prelevato il generale Ochoa, il “boia delle Asturie”, dal suo letto in ospedale, l’aveva passato per le armi e aveva percorso le vie della capitale dopo averne issato la testa su una picca. Nessuna delle due parti era tenera coi prigionieri. Li fucilavano in genere sommariamente. Tra le ultime imprese dei Repubblicani in fuga verso la frontiera con la Francia ci fu la fucilazione dei prigionieri che si erano tirati dietro e che ormai gli ostacolavano la marcia. È l’argomento di un bel libro di Javier Cercas, Soldati di Salamina (Guanda 2016), tema spinosissimo per uno scrittore dichiaratamente di sinistra. 

     
Come le procellarie chiamano tempesta, le violenze da sinistra, e le rivolte separatiste nelle Asturie e in Catalonia, chiamavano fascismo. Della propria “nera disperazione” scriveva Manuel Azaña, capo del governo controvoglia,  il 17 marzo 1936 in una lettera privata al cognato: “oggi hanno incendiato a Yecla 7 chiese, 6 case, tutti i centri politici delle Destra e il Registro della Proprietà. A metà pomeriggio incendi ad Albacete e ad Almansa. Ieri tumulto e omicidi a Jumilla, Sabato Logroño, venerdì Madrid: 3 chiese. Giovedì e mercoledì, Vallecas […]. Hanno bastonato, in via Caballero de Gracia, un maggiore in uniforme che non stava facendo nulla. A El Ferrol due ufficiali di artiglieria […]”. E così via, per pagine e pagine, sino alla sconsolata conclusione: “Da quando si è formato il governo […] ho perso il conto”. 

 

Ciascuna delle  parti massacrava, oltre ai nemici, anche quelli della propria parte, sospettandoli di essere la “quinta colonna” del nemico

  
Per i franchisti la Repubblica era il trionfo della Bestia bolscevica, l’orda rossa, la dittatura marxista, la mostruosità incarnata, lo sfogo incontrollato dei nemici di Dio e della Chiesa, dei nemici della Spagna che la sottoponevano a un martirio lento e orribile, il rifugio dei delinquenti, degli assassini, degli espropriatori, degli stupratori di monache e fanciulle innocenti, dei torturatori e fucilatori di prigionieri e di innocenti. Per i repubblicani i ribelli erano non nazionalisti ma traditori della patria e delle sue istituzioni democraticamente elette, tagliagole marocchini e mercenari, fascisti (i falangisti a dire il vero si dichiaravano tali, quindi non ne prendevano offesa), burattini di Hitler e di Mussolini, sgherri dei latifondisti e del grande capitale, massacratori di operai, contadini e patrioti, torturatori e fucilatori di prigionieri e di innocenti. Il massacro fu in effetti spietato e atroce, da entrambe le parti. Si scoprivano a lungo nuove fosse comuni di torturati e uccisi, addirittura anche dopo la morte di Franco. E, come se non bastasse, ciascuna delle due parti massacrava, oltre ai nemici, anche quelli della propria parte, accusandoli, o solo sospettandoli di essere la “quinta colonna” del nemico. Niente di nuovo sotto il sole: ci sono ancora circostanze in cui si giustificano le peggiori atrocità dando del “nazista” (o del “comunista”) all’avversario. Così si creavano non solo apprensioni ma un vero e proprio terrore tra i moderati e le classi medie, compresi quelli che avevano votato per il Fronte popolare alle elezioni. C’è un bellissimo e documentato libro di Gabriele Ranzato su La grande paura del 1936: Come la Spagna precipitò nella guerra civile (Laterza, 2011). Gli annunci, prima ancora dei fatti, creavano quegli “odi terribili e profondi” cui si riferisce Gramsci quando in carcere riflette sull’eredità del biennio rosso dell’occupazione delle fabbriche. 

    
Quasi un corollario: a politica atroce guerra atroce. Ecco le immagini: brucia nella notte una città bombardata. La scena è illuminata solo dalle fiamme. Le travi si abbattono come tizzoni ardenti. E’ giorno, suonano le sirene. Passano in cielo i bombardieri. I civili si affrettano a scendere nei rifugi. Obici in azione. Esplosioni. I palazzi vengono demoliti a cannonate. Ne restano di scheletriti, contorti, lacerati, mutilati di interi piani. Quel che resta delle facciate è bucherellato da proiettili di grosso calibro. Gente che scava con i badili e con le mani nel mucchio che prima doveva essere un’abitazione. Strade ingombre di macerie e detriti, masserizie, stracci e derrate ormai inservibili dai negozi devastati. Dei civili attraversano di corsa un ponte, curvi a schivare le pallottole. Le madri portano in braccio gli infanti. Pochi quelli che hanno anche una valigia, un fagotto. Altre colonne di profughi, con le poche masserizie sui carretti tirati a mano. Cadaveri di donne e bambini, allineati per strada. Altri cadaveri ammucchiati per terra, in un ampio locale che potrebbe essere la palestra di una scuola.  

   

Aligi Sassu, “Spagna 1937”, (1939, Archivio Fondazione Sassu, Milano) 
   
Non è Irpin. E’ Irún, nel Paese basco. Le truppe nazionaliste di Franco l’avevano nel 1936, quasi agli inizi della Guerra civile in Spagna, assediata, cannoneggiata e poi conquistata combattendo casa per casa. Gli consentiva di controllare le vie per la frontiera con la Francia, quindi impedire rifornimenti alla Repubblica e accerchiare Madrid. Sono immagini riprese da due operatori sovietici, Roman Karmén e Boris Makaseiev, arrivati da Mosca assieme all’inviato della Pravda Mikhail Kolcov. Al ritorno, Kolcov fu fatto fucilare da Stalin, i due bravissimi operatori non so che fine abbiano fatto. Gli spezzoni compaiono in un cortometraggio realizzato da Luis Buñuel. E’ intitolato España 1936. Fu distribuito con sottotitoli e commenti in molte lingue. Su YouTube se ne può trovare anche una versione italiana. E’ un film di parte, anzi di propaganda. Il già celebre regista, che non nascondeva le simpatie repubblicane, era stato convocato a un incontro a Ginevra con il ministro degli Esteri della Repubblica Álvarez del Vayo. Aveva ricevuto l’incarico di recarsi a Parigi, dove avrebbe dovuto dirigere, sotto la supervisione dell’ambasciatore di Madrid, Luis Araquistan, una sezione cinematografica con l’obiettivo di interessare l’Europa alla causa repubblicana. Il compito specifico era contrastare la dichiarata “neutralità” dell’Europa democratica nel conflitto in Spagna, e in particolare l’embargo alle forniture di armamenti e munizioni a entrambi i belligeranti.

 
Il “Patto di non intervento” era stato deciso in una riunione a Londra, cui avevano partecipato rappresentanti della Gran Bretagna, del Belgio e della Francia. Per la Francia era intervenuto il primo ministro Léon Blum. Il suo interlocutore era il ministro degli Esteri britannico Anthony Eden. Blum, socialista, a capo del governo del Front populaire, non poteva che simpatizzare per un governo di sinistra, con a capo un socialista, in Spagna. Il suo ministro della Difesa Pierre Cot aveva già annunciato che la Francia intendeva onorare il contratto, firmato ben prima della sollevazione dei generali, per la fornitura alla Spagna di sei aerei (a uso civile), e poi eventualmente di cacciabombardieri. Ma Blum dovette cedere alle pressioni britanniche, smentire Cot e cancellare ogni vendita di armi alla Spagna. Non si può sapere come sarebbero andate le cose se avessero aiutato la Spagna. Certo presentandosi in ordine di fronte a Hitler e Mussolini, l’occidente la guerra se l’era cercata.

 
Gli storici divergono su come sia andata. Eden gli avrebbe fatto presente che si rischiava una guerra mondiale e che a farne le spese sarebbe stata innanzitutto la Francia. Gli disse che l’intelligence britannica aveva già rilevato concentrazioni e movimenti di truppe tedesche in Renania. Secondo un’altra versione, Blum più che dalle pressioni britanniche si sarebbe fatto convincere dalle pressioni interne. Riteneva che l’invio di armi alla Spagna non sarebbe passato al Senato, dove il suo governo di coalizione di socialisti, radicali e comunisti aveva una maggioranza risicata. Probabilmente temeva che con il provvedimento cadesse anche il governo del Fronte popolare, il quale comunque cadde pochi mesi dopo. Luis Jiménez de Asúa, rappresentante della Spagna presso la Società della Nazioni, ha raccontato – parecchio dopo, nel 1965 – che Blum lo aveva convocato a casa sua, ricevendolo in robe de chambre, per spiegargli, “con le lacrime agli occhi”, perché non poteva fornire armi alla Repubblica aggredita dai suoi generali golpisti. “Mi disse che [il primo ministro britannico conservatore] Baldwin si era rivolto, passandogli sopra la testa, direttamente al presidente della Repubblica [francese] Lebrun, per comunicargli chiaro e tondo che in caso di guerra [della Francia] contro la Germania o l’Italia, la Gran Bretagna sarebbe rimasta neutrale”. Secondo altre testimonianze, Londra avrebbe addirittura minacciato, in caso di intervento diretto della Francia o anche solo di vendita di armi al governo repubblicano legittimamente eletto, di sostenere, fornire armi o addirittura intervenire a fianco di Franco e dei generali ribelli. Poco mancò che gli dicessero che non si doveva umiliare Hitler, che era al governo dal 1933. “Potevate scegliere tra la guerra e il disonore. Avete scelto il disonore. E ora avrete anche la guerra”, gli avrebbe poi rinfacciato Churchill.

 

I “pacifisti” ultrà: Marcel Déat, autore di “Morire per Danzica?”, o il populista Doriot. Sarebbero finiti a fare la guerra, sì, ma in divisa da SS

 
L’Europa era fresca dell’immane quanto inutile strage della Grande guerra. Seguita da un’altra strage a opera del virus della “Spagnola”. Le opinioni pubbliche non volevano una nuova guerra mondiale. La cultura, anche quella di sinistra, era “pacifista”. Di quegli anni è una mia lettura giovanile. La guerre de Troie n’aura pas lieu, di Jean Giraudoux, era andato in scena al Théâtre de l’Athénée nel 1935. Me l’aveva regalato una fidanzata allora molto “di sinistra”. Racconta di come la diplomazia avrebbe evitato quella prima famosa guerra mondiale dei greci coalizzati contro Troia e i suoi alleati. Non sono sicuro che mi abbia convinto. Forse perché già sapevo che quel magnifico pacifismo progressista, incomparabilmente più colto e raffinato del “né né” dei giorni nostri, si specchiava in un assai più becero e ipocrita pacifismo di destra. “Pacifisti” ultrà come l’esponente della “destra sociale” Marcel Déat, l’autore del famoso articolo intitolato “Morire per Danzica?”, o il populista Jacques Doriot, sarebbero finiti a fare la guerra, sì, ma in divisa delle SS. 

 
In Europa non c’era molta simpatia per la Spagna governata dalle sinistre. Neanche da parte della sinistra. A dirla tutta, non c’era molta simpatia per gli spagnoli. Gli eccessi spaventavano. Gli spagnoli erano considerati un popolo di migranti, poveri, rissosi, permalosi, arretrati, un po’ barbari. Ancora a fine Ottocento i proletari francesi attaccavano e linciavano in Provenza i manovali immigrati italiani, accusandoli di portargli via il lavoro. Non andava meglio con spagnoli o portoghesi, buoni a fare tutt’al più i concierge, i camerieri, le donne di servizio, o i pittori morti di fame. Per non parlare degli ebrei, troppo poveri o diversi, tradizionalmente in fuga dai pogrom dell’est, e, ultimamente, dall’ascesa di Hitler in poi, anche dalla Germania, oppure troppo ricchi o abili in finanza. Ai conservatori inglesi non andavano a genio i repubblicani che avevano cacciato un re, né i “rossi” che espropriavano i proprietari terrieri, rivendicazioni autonomistiche tipo quelle di baschi e catalani, che gli ricordavano quelle degli irlandesi in casa loro. Men che meno gli garbava la rottura di equilibri internazionali: minacciava il business.  

 

Il Fronte popolare non era simpatico nemmeno ai laburisti. Il rischio di “una guerra generalizzata in Europa”. Non vi fischiano le orecchie?

 
Il Fronte popolare non riscuoteva simpatia nemmeno dai laburisti. Ecco, tanto per dare un’idea, come il leader del Labour Party, Hugh Dalton (lo stesso che poi avrebbe scalzato dal governo, assieme ad Atlee, il popolarissimo conservatore Winston Churchill), rispondeva nel 1937 a chi lo invitava a “fare di più” per la Spagna: “Vorreste che ‘forzassi la mano al governo’ sulla Spagna. Ma per fare cosa? Per vendere armi al governo spagnolo? Ma tutte le armi che produciamo in questo momento sono già prenotate per il Programma di riarmo britannico. Se anche si togliesse l’embargo [alla vendita di armi alla Spagna] non saremmo in grado di fornire nemmeno un fucile alla Spagna. Sareste forse tra quelli che sono in favore di ‘Armi per la Spagna’, ma non di ‘Armi alla Gran Bretagna’, malgrado il riarmo accelerato dei Fascisti? Vorreste forse che mandassimo l’esercito e la marina britannica in Spagna a combattere i ‘volontari’ fascisti? Quello sì che sarebbe davvero intervenire. Ma pensate che sarebbe sostenuto dalla pubblica opinione inglese? Dovremmo forse mandare la Marina britannica a bloccare le coste della Spagna per far rispettare anche dagli altri il non-intervento? […] C’è un rischio crescente di ‘incidenti’ che rischiano di portarci dritto a una guerra generalizzata in Europa”. Non vi fischiano le orecchie?

 
Tutti quanti sapevano benissimo che il “non intervento” e l’embargo alle armi funzionava solo a senso unico. Valeva solo a svantaggio della Repubblica. Già pochi giorni dopo il pronunciamiento dei generali infedeli alla Repubblica che avevano giurato di servire, Germania e Italia avevano fornito un ponte aereo per trasportare le truppe insorte, i reparti d’élite dei Mori e dei Legionari, e il loro equipaggiamento, dal Marocco alla Penisola. Via mare non avrebbero potuto spostarsi perché la Marina si era ammutinata e aveva proclamato sostegno alla Repubblica. Poi sarebbe intervenuta direttamente a dar man forte ai ribelli la Legione Condor. Stranamente della distruzione di Guernica non esistono immagini, solo il grande dipinto di Picasso. I franchisti sostennero che a bombardarla sarebbero stati i Repubblicani. Anche questo risentito per l’Ucraina. Mussolini aveva immediatamente inviato una flotta verso le Baleari e l’incrociatore Eugenio di Savoia ad alleggerire il blocco di Tangeri. Hitler aveva inviato l’incrociatore Königsberg, con i suoi nove possenti cannoni da 155 millimetri SK C/25, distribuiti in tre torrette. Servivano a impedire che alcunché potesse uscire o entrare nei porti spagnoli, se non esportato dai nazionalisti o importato per armarli. 

 
I repubblicani dovevano invece ricorrere al contrabbando. A Parigi il “misterioso rappresentante dell’Internazionale comunista”, Eugene Fried, aveva creato La Compagnie France-Navigation, affidandone la direzione all’italiano Giulio Cerreti. Nel mio Spie e Zie immagino che Fried sia mio zio Bernard; e potrei anche averla imbroccata, tanto avvolti nel mistero sono l’uno e l’altro, entrambi agenti altamente professionali di Stalin a Parigi nei primi anni 30. Mosca inviava direttamente, da Odessa, aeroplani, carri armati, specialisti, giornalisti, cineoperatori e dirigenti politici. Non gratis, naturalmente. A futuro pagamento, garantito dall’oro della Banca di Spagna, imbarcato in – si dice – 10.000 casse di legno, alla volta sempre di Odessa, per “salvarlo” dalle mire dei fascisti prima che i nazionalisti ci mettessero su le mani loro.  

 

Per una parte dell’America era una lotta tra il Bene e il Male. E il Male era la sinistra atea. La mobilitazione contro l’accoglienza di orfani spagnoli

 
E l’America? Peggio che andar di notte. All’opinione pubblica Usa della Spagna non poteva importare di meno. Nel 1937, quando la guerra durava ormai da oltre un anno, e i lettori di giornali potevano leggere le corrispondenze di fior di giornalisti, Ernest Hemingway e Martha Gellhorn, per citarne un paio soltanto, e guardare le foto scattate da Robert Capa, Gerda Taro e David Seymour per la Magnum, un sondaggio Gallup rivelava che l’argomento era al decimo posto in interesse per il pubblico maschile americano, subito dopo il matrimonio di Edoardo di Windsor con l’americana divorziata, nonché ammiratrice di Hitler. Due americani su tre non avevano nemmeno conoscenza dell’esistenza del conflitto. Per contro, due inglesi su tre un’opinione sulla guerra di Spagna se l’erano fatta. Ma non era nel senso che la democrazia andasse difesa. Per gran parte dell’Europa il conflitto era una questione locale, che se la vedessero gli spagnoli senza infettare gli altri. Per una parte dell’America, la destra, specie la destra cattolica, era una lotta tra il Bene e il Male. E il Male, ça va sans dire, era la sinistra atea. Non solo si mobilitarono in un Comitato per mantenere l’embargo all’invio di armi in Spagna (alla Repubblica naturalmente, le armi agli altri non contavano), ma anche contro l’invio di farina. Arrivarono al punto di mobilitarsi contro l’accoglienza di alcune centinaia di bambini spagnoli, già organizzata dalla Croce rossa. La motivazione: erano orfani di combattenti repubblicani, quindi potenzialmente atei, dei pericolosi rivoluzionari…

 
In quella che a ragione è stata definita la prima guerra elettronica, combattuta sulle onde radio prima ancora che sui campi di battaglia, vinceva, prima ancora di chi aveva più cannoni, chi aveva più trasmettitori e più ricevitori. Da Detroit padre Charles E. Coughlin – definito da alcuni un santo, da altri un protofascista – tuonava quotidianamente contro le malefatte degli atei in Spagna. I suoi sermoni raggiungevano 8 milioni di apparecchi radio, oltre 15 milioni di ascoltatori. Ma è in Spagna che la radio ebbe un’importanza strategica paragonabile a quella che in Ucraina hanno le immagini diffuse via internet, grazie anche alla inattaccabile piattaforma web satellitare fornita da Elon Musk. Via radio, le centinaia di stazioni dei partiti, dei sindacati, degli anarchici, dei generali ribelli diffondevano informazioni dal fronte, propaganda e fake news. Le apparecchiature più potenti le avevano i tedeschi. Si univano a surfare sulle onde migliaia di radioamatori. Ad alcuni mal gliene incolse: la ragione, piuttosto improbabile, addotta dai nazionalisti per la fucilazione del poeta García Lorca è che avrebbe comunicato via radio con i repubblicani. Via radio apprendeva quel che succedeva in Spagna il resto dell’Europa e del mondo.

    
Le simpatie andavano ai nazionalisti piuttosto che ai repubblicani. Li chiamo così per comodità, e per abitudine. E’ molto impreciso.  In realtà i “lealisti” repubblicani erano più “nazionalisti” dei nazionalisti. I comunisti erano in prima fila nel presentare la guerra come guerra di popolo in difesa della Spagna, come “guerra patriottica” per eccellenza. Pochi anni dopo Stalin avrebbe preso di peso dagli spagnoli questa definizione per vincere la guerra contro gli invasori nazisti. Nel 1936 Manuel Azaña Díaz, presidente della Repubblica durante la crisi, aveva immediatamente associato la resistenza ai generali golpisti all’insurrezione di popolo del 1808 contro gli invasori napoleonici. “Un paese indipendente e libero, cioè la Repubblica. Questo è ciò che la Spagna vuole essere”. 

 

Strano fato quello delle testate: il giornale dell’estrema destra si chiamava invece La Verdad, come la Pravda, organo del Pcus 

   
Certo, una parte della compagine repubblicana diceva un giorno sì e uno no di non volere affatto difendere la democrazia “borghese”, ma di voler “fare la rivoluzione”. Alcuni dichiaravano di voler fare come in Russia. Altri, gli anarchici, i trotzkisti, di voler fare meglio, cioè peggio che in Russia, dove Stalin si sarebbe arreso ai burocrati. “[Quello del Fronte popolare] è un programma di centro conservatore più che di centro riformista; si attui questo programma e la rivoluzione sarà ridotta all’impotenza […]” lamentava un editoriale di El Liberal, giornale vicino a Izquierda Republicana, cioè liberal-radicale, nemmeno di sinistra sinistra. Strano fato quello delle testate: il giornale dell’estrema destra si chiamava invece La Verdad, esattamente come la Pravda, organo del Pcus e La Verità di Belpietro, dite voi organo di chi. Non è a dire il vero che la controparte golpista fosse da meno in fatto di disprezzo della democrazia. “Noi non crediamo in governi che nascono dalle urne. La Nazione spagnola non potrà mai esprimersi liberamente mediante il voto…”, aveva dichiarato Francisco Franco nel primo proclama dopo la ribellione. Non esattamente un biglietto da visita rassicurante per le sensibilità democratiche dei vicini europei. 

 
Sembrava dovesse durare poco, risolversi in fretta per una o l’altra delle parti. E invece l’orrore durò due anni e mezzo. E fu tale che ancora oggi vige il tacito pacto de olvido, il patto per dimenticare, stipulato da tutte le parti politiche per consentire una transizione senza traumi alla democrazia dopo la morte del Caudillo Franco. Sul piano militare, si alternarono per due anni e mezzo offensive, controffensive, avanzate, ritirate, accerchiamenti, assedi. Un momento sembrava che stessero vincendo i ribelli, il momento dopo che prevalessero le forze della Repubblica e dei volontari giunti da tutto il mondo a darle man forte. Città e villaggi passavano più volte di mano. E ogni volta i vincitori del momento fucilavano e massacravano quelli che avevano lasciato in vita la volta prima. “No pasaran” dicevano i difensori di Madrid. Si sa: Alfin pasaron. 

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