Una manifestazione di sostenitori di Hezbollah durante la campagna elettorale a Beirut (foto LaPresse)

conteso da hezbollah e sauditi

Elezioni in Libano, fra il Partito di Dio e quello del non voto

Luca Gambardella

Impoverito e frammentato, il paese orfano di Hariri scivola sempre più verso l'Iran. Il patriarca maronita: "Non cambierà nulla in questo paese se votate come delle pecore" 

“Non sarete chiamati a votare con il vostro sangue, perché il vostro sangue è già stato versato in passato e ora abbraccia tutto il Libano”. Da Nabatieh, roccaforte di Hezbollah nel sud del Libano, Hassan Nasrallah ha ricordato la settimana scorsa il “sacrificio” della guerra del 2006 contro Israele per lanciare la sua corsa alle elezioni parlamentari di domenica. “Dobbiamo vincere questa guerra politica”, ha detto davanti a una distesa di bandiere gialle, quelle del Partito di Dio, che punta a colmare il vuoto politico lasciato da Saad Hariri, il leader sunnita che a gennaio ha annunciato il suo ritiro dalla politica autoesiliandosi negli Emirati arabi uniti. “Dove è finito l’uomo che ha gettato il suo paese tra le braccia di Teheran?”, accusava qualche giorno fa il quotidiano saudita al Hayat, che definiva Hariri un “traditore”.

  

Se buona parte dell’elettorato di Hezbollah e dei suoi alleati di Amal resta centrata sulla “minaccia sionista”,  molti fra i più giovani sono insofferenti alla retorica dell’accerchiamento e accusano la classe politica libanese di essere l’unica responsabile di una situazione economica disastrosa. Anche a Nabatieh, come in molte altre città del paese, l’energia elettrica è assicurata appena due ore al giorno perché manca il gasolio che alimenta le sette centrali del paese. Secondo la Banca mondiale, il paese attraversa una delle peggiori crisi economiche degli ultimi 150 anni, con circa l’80 per cento della popolazione al di sotto della soglia di povertà.  

 

Lo scenario politico libanese è frammentato in un sistema confessionale farraginoso. E’ la corruzione il collante più forte che tiene legato insieme il paese fra banche, élite politica, milizie e servizi segreti. In mezzo c’è la disaffezione dell’opinione pubblica, su cui pesano un’inflazione che supera il 215 per cento e la disoccupazione vicina al 30 per cento, triplicata nel giro di appena tre anni. Il partito del non voto domenica rischia di essere maggioritario e l’incertezza sull’esito delle elezioni è forte. Anche i leader religiosi sunniti e cristiani hanno rivolto diversi appelli affinché non sia Hezbollah a prevalere. Il Gran Muftì, Ali al Jozo, ha dichiarato che “i sunniti devono essere uniti contro l’Iran, che è una minaccia per tutti gli arabi. Ha portato i russi in Siria e gli americani in Iraq”. Il patriarca maronita Béchara Raï si è esposto come mai prima d’ora, definendo apertamente Hezbollah una “milizia con cui l’Iran viola la sovranità del paese” e ha avvertito con toni poco convenzionali: “Non cambierà mai nulla se i libanesi votano come fossero delle pecore”. La prospettiva più concreta è che la nuova maggioranza che si formerà in Parlamento confermi un governo guidato dall’attuale primo ministro, il sunnita Nagib Mikati, almeno fino a ottobre, quando scadrà il mandato del presidente cristiano Michel Aoun.

 

Il mese scorso, il Fondo monetario internazionale ha raggiunto un accordo preliminare per un pacchetto di aiuti che ammonta a 3 miliardi di dollari. Una goccia nel mare,  perché nel frattempo le divisioni politiche ostacolano le riforme necessarie a sbloccare il prestito. “Lo stallo resterà a prescindere da chi vincerà le elezioni”,  spiega al Foglio  da Beirut Nicholas Blanford, analista  dell’Atlantic Council, un think tank americano. “Sin dal collasso economico del 2019 i governi che si sono via via insediati non hanno fatto quasi nulla per avviare le riforme economiche, del sistema giudiziario o per garantire maggiore trasparenza. Vedo un futuro grigio anche per il breve e medio termine”. A chiedere le riforme stavolta c’è anche chi, fino a qualche anno fa, era il maggiore finanziatore del blocco sunnita nel paese, ovvero le monarchie del Golfo. I tempi degli investimenti a fondo perduto in Libano sono finiti. Da quando re Salman è salito al trono nel 2015, Riad si è concentrata su altri dossier, Yemen in primis. “Sembrava che improvvisamente i sauditi fossero disinteressati alle sorti del Libano, che nel frattempo è finito nelle mani dell’Iran”, dice Blanford. Ora però si assiste a un nuovo cambio di rotta. Di recente, l’ambasciatore saudita è tornato a Beirut dopo che, nel 2017, era stato ritirato in protesta al sostegno offerto da Hezbollah agli  Houthi in Yemen. Ma le trattative in corso fra Stati Uniti e Iran per un nuovo deal sul nucleare potrebbero avere convinto le monarchie del Golfo che sia tornato il momento di attivarsi per contenere l’influenza iraniana nella regione, spiega l’analista del think tank americano. “Ma se i sauditi credono di riuscire a influenzare ora l’esito delle elezioni in Libano e volgerlo a loro favore, forse è troppo tardi”.

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.