Un manifestante arrestato a San Pietroburgo (LaPresse)

Un risveglio improvviso

Il Cremlino non può più vendere ai cittadini spazientiti il mito della guerra 

Anna Zafesova

La propaganda di Putin racconta la guerra come una necessità e un trionfo, rispolverando la tradizione sovietica. I russi non ci credono più e le autorità pensano a limitare la diffusione di Facebook

Un soldato russo si fa un selfie, il sorriso compiaciuto, con alle spalle le batterie di razzi multipli che sputano incessantemente missili verso l’Ucraina. Ma per il ministero della Difesa, non sono in corso bombardamenti, non ci sono perdite, anzi, non c’è nemmeno una guerra, ma soltanto una “operazione militare speciale”. Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov dice che la Russia “non ha intenzione di invadere” mentre i carri armati russi sono alla periferia di Kyiv. Il presidente della Duma Vyacheslav Volodin dice che gli ucraini, “popolo fratello”, non hanno nulla da temere, mentre i missili russi colpiscono quartieri residenziali e la popolazione si nasconde nelle stazioni della metropolitana. E Vladimir Putin insiste che il governo ucraino è una “banda di drogati neonazisti” assistiti da “consulenti americani”, mentre gli ucraini si preparano in massa a difendere le loro città. Solo i canali Telegram mostrano invece il video dell’interrogatorio del soldato russo steso su una barella, ferito e catturato dagli ucraini. È un ragazzino, probabilmente un militare di leva, che racconta dei “colonnelli che ci hanno detto che gli ucraini stavano sparando su Rostov”. L’ufficiale ucraino che lo interroga non riesce a trattenere una risata, non riesce nemmeno ad arrabbiarsi. 

 

Sono le stesse bugie che raccontano i media dall’altra parte del confine, per convincere i russi che a) non si tratta di una guerra, b) anche se fosse una guerra, è giusta e preventiva, c) magari non si chiama guerra, ma è un trionfo: gli ucraini si stanno arrendendo a battaglioni. È la stessa narrazione usata da sempre dall’Unione sovietica, per tutte le sue guerre di invasione, dalla guerra contro la Finlandia iniziata da un falso attacco contro i sovietici nel novembre 1939, alla guerra “preventiva” in Afghanistan nel 1979, raccontata come “operazione di aiuto internazionalista”, per non parlare delle invasioni in aiuto ai regimi “fratelli” in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968. Una fede quasi magica nelle parole, e l’insistenza della propaganda putiniana sulla sua terminologia diventa a sua volta un ulteriore motivo di scontro con l’occidente che si rifiuta di riconoscere che i bombardamenti di Kyiv e Kharkiv abbiano come obiettivo la “liberazione” dell’Ucraina dalla “oppressione del governo nazista”.

 

Ed è proprio questa dissociazione cognitiva orwelliana a spezzare, all’improvviso, la pazienza rassegnata di molti russi. Il silenzio, la paura, il talento di guardare altrove ed evadere nella vita privata affinati ancora sotto il totalitarismo sovietico e rispolverati negli ultimi mesi di arresti e censure del dissenso, non resistono di fronte a quella che appare la madre di tutte le bugie. Tra l’altro, proprio la retorica dei “popoli fratelli” va a ritorcersi contro il regime, perché molti russi condividono con Putin l’incapacità di credere in una Ucraina indipendente dalla Russia, ma proprio per questo non riescono a capacitarsi di una Russia che bombarda l’Ucraina. I post “No alla guerra” si moltiplicano, alla protesta social si uniscono anche la figlia dell’oligarca Roman Abramovich, del portavoce di Putin Dmitri Peskov, e tanti altri insospettabili. L’attore Marat Basharov viene licenziato per aver ringraziato pubblicamente Putin di aver lanciato la guerra: un “comportamento disgustoso per un cittadino”, spiega il provvedimento il regista della Scuola della drammaturgia moderna. Un risveglio improvviso, che spinge le autorità russe a prendere, per la prima volta, provvedimenti per limitare la diffusione di Facebook.