Il futuro di Biden non lo faranno le parole, ma le immagini da Kabul

Stefano Pistolini

Il presidente americano ha sentito la responsabilità di continuare a sostenere il ritiro, in un discorso di cui solo una minoranza apprezzerà la franchezza. I fotogrammi dei falling men, la scomparsa delle donne dai video e l’infinita galleria di estetismi talebani risvegliano gli incubi

Le parole contro le immagini. Niente spaventa più l’America del caos. Ma le cronache da Kabul ora parlano proprio di quello, l’evocazione è lampante ed esplode mentre sta per ricorrere il ventennale dell’11 settembre, punto apicale di questa vicenda. Il discorso di Biden di lunedì ha ribadito l’attitudine di questo presidente, fatta di esperienza, realismo, pragmatismo e, apprezzabilmente, di antieroismo. Ha detto ciò che tutti sanno: che la presenza americana in Afghanistan era arrivata a un punto morto, prodotto di un’infinità di errori strategici e passibile di costi non più accettabili. Dunque, a costo di vestire panni storicamente scomodi, Biden ha sentito la responsabilità di continuare a sostenere il ritiro, arrivando ad ammettere che le modalità con cui le operazioni si stanno svolgendo sono messy, disordinate – già, a dir poco tragicamente disordinate.

 

Il mondo politico americano in maggioranza ha criticato le sue parole e la sua visione, sottolineando il suo ruolo-chiave durante la presidenza Obama e ribadendo come a questo punto il comandante in capo sia lui e su di lui devono ricadere le colpe di ciò che sta accadendo e, ancor di più, di ciò che potrebbe accadere in un vicino futuro. Tutti si sono affrettati a dire che le modalità del ritiro avrebbero meritato diversa pianificazione, avvisando Biden che un’altra umiliazione dell’America nel mondo non sarebbe accettata, mentre ciò che mostrano tutte le tv parla proprio di questo: caos, impreparazione, un esodo precipitoso e un’evacuazione disorganizzata, a coronamento di un impegno ventennale su un fronte che l’America, al di là della rivalsa per l’attacco terroristico d’inizio millennio, continua a considerare incomprensibile, oltre che inaccettabilmente costoso.  

 

Biden pagherà un prezzo alto per la sua interpretazione dell’uomo rimasto col cerino in mano, che decide di spegnerselo nel palmo, piuttosto che dilazionarne la responsabilità. I numeri dell’approvazione presidenziale scenderanno e solo una minoranza apprezzerà la franchezza del suo discorso, mentre si gonfieranno le accuse di aver finanziato la corruzione, anziché la rinascita di quella nazione, la poca lungimiranza esecutiva dell’operazione in corso all’aeroporto di Kabul e l’assenza di una visibile catena di comando. Ma queste restano comunque le parole del discorso inevitabile, che il presidente ha dovuto rivolgere alla nazione. La sua laconicità impallidisce fino a sparire; i fotogrammi dei corpi che cadono dal cielo staccandosi dai velivoli in decollo resuscitano altri falling men, stavolta newyorkesi, in quella mattina del 2001.

 

E poi la scomparsa delle donne dai video e l’infinita galleria di estetismi talebani: le foto in posa per strada col fucile in primo piano, i selfies a cavallo di vecchi motorini o sui cassoni dei suv, carezzandosi le barbe con gli sguardi truci. O il compiacimento osceno di sedere nelle stanze del potere defenestrato, di occuparne con arroganza le poltrone – rievocando anche qui l’esistenza di un caos interno americano, la ferita della corriva invasione del Campidoglio a Washington, appena otto mesi fa. Ecco: queste immagini e quelle più tragiche che potremmo vedere a breve, schiacciano le parole di circostanza mormorate da chi cerca di inquadrare la deflagrazione in atto come un procedimento turbolento ma controllato. E’ il contenuto contro la forma: vecchio problema americano, per giustificare, contenere, eventualmente rimuovere, infine assolvere.

 

La speranza è che tra qualche mese, almeno negli Stati Uniti, così fuori tiro per i profughi, dell’Afghanistan non si ricordi più nessuno. Che ci si torni a occupare d’altro, non del caos che rende impotenti. Il problema è che questo è il presente e questa è la sua configurazione: basta un video su Twitter o un kamikaze per risvegliare gli incubi. Gli americani più avvertiti questo l’hanno capito e restano col fiato sospeso. I vecchi piani di nuovo ordine mondiale sono in soffitta e la sensazione è quella di aver perduto la dinamica elasticità mentale indispensabile per stare al passo con gli adeguamenti del presente. Quella con cui vennero compiute imprese oggi seppellite nella Storia.

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