La battaglia per la democrazia di Samoa

C'è una signora che ha vinto le elezioni ma l'attuale primo ministro non le riconosce la vittoria. Allora lei giura nel tendone

Giulia Pompili

Una vicenda molto simbolica nel piccolo stato polinesiano. La storia di una leader (anticinese) che difende le istituzioni dagli assalti del potere

Lo hanno definito un “colpo di stato senza sangue”. Per l’ennesima volta c’è chi non accetta i risultati di un’elezione, e con decisioni autoritarie blocca il percorso della democrazia. Una piccola monarchia parlamentare del Pacifico diventa il simbolo della resistenza democratica, dei rapporti di forza che si muovono in quell’area di mondo, degli interessi della grande potenza illiberale asiatica.


Siamo nello stato di Samoa, nel Pacifico del sud, paradisiache isole a metà strada tra le Hawaii e la Nuova Zelanda con poco meno di duecentomila abitanti. Dal 1998, in questa parte di Polinesia, ha sempre governato lo stesso primo ministro, il secondo più longevo del mondo. Si chiama Tuilaepa Sailele Malielegaoi, ha 76 anni, ed è il leader dello Human Rights Protection Party, formazione politica che è al governo da circa quarant’anni. Ai samoani piace la stabilità politica, ma qualcosa di grosso è avvenuto durante le ultime elezioni generali, il 9 aprile scorso. Lo Human Rights Protection Party ha vinto 25 seggi del Parlamento, gli stessi di una nuova formazione politica, abbreviata in Fast (Faʻatuatua i le Atua Samoa ua Tasi, Speranza nel Dio di Samoa), e guidata da Fiame Naomi Mata’afa. Il voto di protesta contro il partito tradizionale, ha scritto su The Conversation la studiosa di politica samoana Patricia A. O’Brien, è la conseguenza di una serie di riforme costituzionali approvate a tempo di record dal governo di Tuilaepa nel mezzo dell’emergenza Covid: riforme illiberali fatte per dare più potere all’esecutivo anche sulla magistratura, con “significative conseguenze per i diritti umani” (alla faccia del nome del partito).


Data la parità nei risultati delle elezioni, e un Parlamento composto da 51 seggi, l’ago della bilancia è toccato a un candidato indipendente, che ha scelto di allearsi con Naomi Mata’afa e il suo partito Fast. La maggioranza era pronta a partire, ma il 20 aprile scorso la commissione elettorale, espressione del governo in carica, ha creato dal nulla un 52esimo seggio, da assegnare naturalmente al partito in carica. Poi ha dichiarato invalide le elezioni. La Corte suprema, però, ha rimesso tutto in discussione, dichiarando incostituzionale sia il 52esimo seggio sia la richiesta di nuove elezioni. Si è aperta così una crisi costituzionale che è arrivata fino a ieri, quando Tuilaepa ha fatto sbarrare le porte del Parlamento annullando la seduta prevista.

 

 L'ormai ex primo ministro di Samoa Tuilaepa insieme con il leader cinese Xi Jinping (LaPresse) 


Naomi Mata’afa, 63 anni, la legittima nuova premier di Samoa, la prima donna a guidare il paese, ieri è stata costretta a giurare fuori dal Palazzo legislativo, sotto a un tendone. Il governo che ha perso le elezioni in un comunicato ha fatto sapere che quel giuramento non è valido, ma già alcuni paesi del Pacifico hanno riconosciuto come  legittimo il governo guidato dal partito Fast. 


Mata’afa è un personaggio interessante. Ex vicepremier, si è dimessa quando Tuilaepa ha annunciato le riforme tutt’altro che democratiche per aumentare il potere del governo. Ha un enorme capitale politico anche perché è la figlia di Mata’afa Faumuina Mulinu’u II, il primo capo del governo della storia di Samoa, che portò il paese all’indipendenza dalla Nuova Zelanda nel 1962. Ma durante i pochi mesi di campagna elettorale, dopo essere diventata leader di Fast, Mata’afa ha preso una posizione piuttosto chiara sui rapporti con Pechino: ha annunciato la cancellazione di un progetto per lo sviluppo di un porto da 128 milioni di dollari sostenuto dalla Cina perché, ha spiegato, è troppo costoso per la piccola isola del Pacifico che è già molto indebitata con la Cina. L’esecutivo di  Tuilaepa, invece, aveva puntato molto sull’alleanza con Pechino. 


Le isole del Pacifico sono una delle aree di rivalità più evidenti tra Cina e America. Basti pensare che a sud est dello stato di Samoa ci sono le Samoa americane, stato non incorporato degli Stati Uniti, e che per la Flotta americana del Pacifico quelle isole sono vitali. A febbraio cinque dei diciotto membri del Pacific Islands Forum, l’organo politico più influente della regione, guidato da Australia, Nuova Zelanda, America e Giappone, hanno deciso di sfilarsi dall’organizzazione. Tra i motivi c’è anche la crescente influenza economica, e quindi  politica, di Pechino. Samoa è l’ennesimo episodio di democrazia che si trasforma in autoritarismo, ma anche l’ennesimo terreno di resistenza dalla “trappola del debito” cinese. Adesso non si sa bene cosa succederà: di sicuro Mata’afa ha un programma di governo che non piace per niente a Pechino.  

 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.