I compromessi per entrare nel mercato cinese. Ne vale davvero la pena?

Giulia Pompili

Da Apple a Tesla. Il business separato dalla politica con la Cina è finito da  tempo

Quanti compromessi bisogna accettare per fare affari con la Cina? Che siate  un piccolo imprenditore, un colosso industriale, perfino un governo, la risposta è sempre la stessa: tanti, tantissimi. Forse troppi. La narrazione secondo la quale è necessario capire Pechino, entrare nella sua visione del mondo per conoscerla e poi affrontarla – l’atteggiamento tipico di un rapporto molto pragmatico che abbiamo portato avanti sin dagli anni Settanta –  ha già da un po’ iniziato a mostrare le sue fragilità.

 

Con la leadership di Xi Jinping molte cose sono cambiate, e molte stanno cambiando ancora: l’ingresso nel mercato cinese ha sempre un costo in termini di libertà imprenditoriale, libero mercato, sicurezza. Tre giorni fa il New York Times ha pubblicato una lunghissima e documentata inchiesta su Apple, colosso della tecnologia che si è trasformata in un’azienda multimilionaria anche grazie a Pechino, e sul suo ceo Tim Cook, erede del fondatore Steve Jobs. Ne esce fuori un ritratto dell’azienda più che mai incline ai compromessi con l’autoritarismo di Pechino. Jack Nicas, uno dei tre autori dell’inchiesta, ha detto alla newsletter tech del quotidiano: “Sapevamo che la Apple aveva spostato i dati degli utenti cinesi dei dispositivi Apple all’interno dei confini cines, e che  aveva rimosso le app su richiesta del governo cinese. Ma finora non avevamo contezza del livello di accondiscendenza della Apple alle richieste del governo cinese”.

 

Nel 2016 Pechino ha introdotto una legge che obbliga tutte le aziende che operano in Cina a conservare i dati degli utenti all’interno del proprio territorio. Per fare questo, Apple ha dovuto appaltare la conservazione di tutti i dati a un’azienda statale cinese, dove finiscono i backup degli iPhone dei cittadini che vivono in Cina. Non solo: Apple ha dovuto rinunciare alla crittografia, il sistema che impedisce di controllare chi può accedere a quei dati. Anche l’Apple store cinese è stato piegato ai desiderata di Pechino: “Negli ultimi anni decine di migliaia di app sono scomparse dall’App store cinese di Apple”,  scrive il Times, “più di quanto si sapesse in precedenza, comprese le app di alcuni media stranieri, app per incontri gay e quelle di messaggistica crittografata. Ha anche bloccato gli strumenti per organizzare proteste in favore della democrazia e aggirare le restrizioni di internet, così come le app sul Dalai Lama”. Eppure, in occidente, l’azienda di Cupertino ha sempre rivendicato la sua “moralità” su certe scelte tecnologiche, basti ricordare che almeno in due casi rifiutò la richiesta del procuratore generale americano di accedere agli iPhone di sospettati per crimini gravi. 

 

Per le aziende straniere accedere al mercato cinese significa sempre di più adeguarsi alle regole cinesi. E’ uno dei motivi per cui il Cai, il trattato per gli investimenti con la Cina che avrebbe dovuto essere ratificato dal Parlamento europeo, è stato ampiamente criticato, e ormai messo definitivamente nel congelatore. Ignorare un mercato da 1,4 miliardi di consumatori è difficile, scriveva a gennaio il South China Morning Post, ma con l’aumento dei controlli, delle regole e delle restrizioni imposte dal Partito comunista  molte aziende internazionali ritengono la Cina “sempre più difficile e costosa. Seguire la linea del Partito, la censura e i controlli sempre più rigorosi sui flussi di capitale sono solo alcune delle incertezze per le aziende straniere”. All’inizio dell’anno un gruppo lobbistico di aziende tecnologiche capitanato da Eric Schmidt, ex ceo di Google, ha scritto delle raccomandazioni per la nuova Amministrazione americana evidenziando la “disparità” tra il settore tech statunitense e quello cinese: “La Cina si basa su un diverso insieme di regole che le consentono di beneficiare dello spionaggio aziendale, della sorveglianza illiberale e di una linea sfocata tra il suo settore pubblico e privato”, si legge nel report. Per questo è sempre più difficile fare affari in Cina senza aderire alle decisioni autoritarie del Partito, che fa leva sui colossi stranieri anche per fare politica e propaganda. Un altro esempio è il rapporto complicato tra la Tesla di Elon Musk e i consumatori cinesi, che  si è trasformato in quello che molti media hanno definito “il servilismo di Musk” nei confronti del Partito. Il business separato dalla politica con la Cina è finito da  tempo. 
 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.