I diplomatici di mezzo mondo occidentali, con in testa il viceambasciatore canadese, davanti al tribunale di Pechino durante il processo contro Michael Kovrig (LaPresse)

Sanzioni e detenzioni arbitrarie. Il bullismo della Cina è un problema di tutti

Il processo ai due due canadesi e la reazione all'azione dell'Ue. Pechino usa la forza per obiettivi politici. Ma per la prima volta c'è stata una reazione collettiva

Giulia Pompili

Si sono svolti i due diversi processi contro i due cittadini canadesi accusati di spionaggio dalla Cina. Ai rappresentanti diplomatici di oltre venti paesi è stato negato di assistere

[Articolo aggiornato l'11 agosto 2021, alle 08:40] Il tribunale cinese di Dandong ha condannato l'imprenditore canadese Michael Spavor a 11 anni per spionaggio. Il primo ministro del Canada Justin Trudeau ha detto che la sentenza è "assolutamente inaccettabile".

"Il verdetto - ha dichiarato Trudeau - arriva dopo oltre due anni e mezzo di detenzione arbitraria, mancanza di trasparenza nel processo legale e un processo che non ha soddisfatto nemmeno gli standard minimi richiesti dalla normativa internazionale". 


   

Si è aperto ieri a Pechino il processo contro l’ex diplomatico e analista del think tank International Crisis Group Michael Kovrig. Cittadino canadese, Kovrig era stato arrestato il 10 dicembre del 2018 mentre si trovava in Cina. Insieme a lui, nelle stesse ore, le autorità cinesi avevano arrestato anche Michael Spavor, un uomo d’affari molto noto per aver facilitato le relazioni economiche tra Corea del nord e Cina. I due cittadini canadesi sono stati fermati qualche giorno dopo l’arresto a Vancouver di Meng Wanzhou, figlia del fondatore e direttrice finanziaria di Huawei, fermata dai canadesi su richiesta degli Stati Uniti e ancora oggi in attesa di una sentenza sulla sua estradizione. I due cittadini canadesi sono accusati di spionaggio, ed esattamente come venerdì scorso, quando si è aperto il processo contro  Michael Spavor a Dandong, i rappresentanti diplomatici di oltre venti paesi – tra cui Canada, Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Svizzera, Unione europea e Italia – che avevano chiesto di assistere ai processi, sono stati lasciati fuori. Il motivo è che i due cittadini canadesi avrebbero violato la Legge sulla sicurezza cinese, e quindi i processi possono essere celebrati a porte chiuse. Per entrambi, la lettura della sentenza è stata rinviata “a data da destinarsi”, il che ha fatto pensare che ci sia spazio per una negoziazione extragiudiziale – e quindi tutta politica – per il rilascio dei due. Ma a che prezzo?

 

Da anni il Canada denuncia l’arbitrarietà della detenzione dei due Michael, che per oltre ottocento giorni sono in stato d’arresto senza poter avere contatti con la famiglia, ma solo con rappresentanti diplomatici (incontri che a causa della pandemia si sono svolti solo telefonicamente), e senza che le accuse specifiche venissero ufficializzate, in un paese dove il tasso di condanna è al 99 per cento. D’altra parte la Cina accusa il Canada dell’arbitrarietà della detenzione di Meng Wanzhou, accusata dall’America di frode bancaria e di aver violato le sanzioni internazionali contro l’Iran vendendo componenti vietati. La funzionaria di Huawei è comunque fuori su cauzione nella sua lussuosissima abitazione di Vancouver. Il ministro degli Esteri canadese Marc Garneau ha detto che “gli occhi del mondo sono su queso caso”, perché in effetti quella che molto probabilmente è stata una reazione cinese all’arresto di Meng Wanzhou (e quindi alla sua azienda più importante e strategica, Huawei) dimostra il modus operandi di Pechino, tutt’altro che disposta a procedere secondo il diritto internazionale. O meglio, secondo la Cina di Xi Jinping il diritto internazionale, il commercio, la diplomazia, tutto può e deve essere uno strumento per arrivare agli obiettivi politici.

 

Quello che è successo ai due cittadini canadesi sarebbe potuto accadere a due cittadini italiani, se per caso l’Italia avesse arrestato su richiesta di un paese alleato un cittadino cinese. Anche le sanzioni di ieri, una reazione spropositata in risposta alle sanzioni dell’Unione europea, sono la dimostrazione di un metodo che finora per Pechino è stato molto più che efficace: reagire con forza a chi sanziona la natura autoritaria di alcune sue politiche, in modo che poi il più debole decida di abbandonare la battaglia diplomatica.  Ma se i boicottaggi economici che vengono lanciati contro i paesi che si mettono di traverso alla politica cinese (ultimi esempi: Corea del sud, Australia, Taiwan) non sono mai stati puniti dall’Organizzazione mondiale del commercio, con le sanzioni di ieri e il processo ai due Michael abbiamo assistito a qualcosa di inedito: una risposta coordinata contro le azioni cinesi da parte di quasi tutto il mondo liberale. La resistenza politica di un singolo paese, se non sostenuta da un’azione collettiva che censuri il bullismo cinese, è destinata a fallire. Ma in assenza di organizzazioni internazionali e indipendenti, capaci di avere davvero un’influenza sulla Cina, resta soltanto uno scontro tra modelli e metodi. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.