La Cina contro chi ha capito

Anche la Farnesina convoca l'ambasciatore Li Junhua. Lunedì Pechino ha reagito alle sanzioni dell'Ue colpendo non soltanto i politici, ma soprattutto accademici, ricercatori e studiosi che sfidano, con i fatti, la propaganda del regime

Giulia Pompili

Un monito nei confronti delle università e degli enti di ricerca che si occupano di Cina in occidente. Questa però è la strategia cinese: minare la credibilità delle analisi mistificando la realtà e soprattutto accusando gli autori di quelle analisi

Ci sarà un prima e un dopo la reazione cinese alle sanzioni dell’Unione europea, le prime dal 1989, l’anno del massacro di piazza Tiananmen. Perché all’azione dell’occidente e dei paesi democratici è seguita una reazione da parte della Cina totalmente inaspettata dagli europei e altrettanto sproporzionata, esageratamente forte, ma che svela il vero approccio di Pechino alla politica internazionale. La Cina colpisce non solo la politica europea, ma anche e soprattutto gli analisti e i ricercatori che non si allineano alla sua visione del mondo, che non diffondono la sua narrazione delle questioni più sensibili per il Partito. I centri di ricerca e i singoli ricercatori non sono mai stati l’oggetto di sanzioni internazionali, tanto meno quelle dell’Ue, perché l’accademia e la ricerca sono teoricamente libere di fare il loro mestiere. Nella concezione cinese, però, non funziona così. “Dopo queste sanzioni, per chi fa ricerca in Europa sarà difficile parlare pubblicamente delle politiche di Xi Jinping a Hong Kong o nello Xinjiang”, dice al Foglio un ricercatore italiano in Cina che preferisce restare anonimo, come molte delle fonti che abbiamo contattato per questo articolo.  

   

Delle sanzioni contro la Cina votate lunedì l’Unione europea parla da mesi: servivano a mandare un messaggio contro le rivelazioni, sempre più circostanziate e gravi, sul programma di “assimilazione” delle minoranze all’interno della regione autonoma dello Xinjiang – un modo edulcorato per parlare della sistematica violazione dei diritti umani perpetrata dalla Cina contro i musulmani turcofoni uiguri (e non solo gli uiguri). Fino a oggi l’Ue era praticamente l’unica, tra le potenze democratiche, a non aver mandato un messaggio chiaro e unitario contro Pechino sulla questione, e anzi era stata molto criticata la videoconferenza con cui, il 31 dicembre scorso, Charles Michel, Ursula von der Leyen, Angela Merkel ed Emmanuel Macron si erano congratulati con Xi Jinping per la conclusione dei negoziati sul Cai, l’accordo sugli investimenti tra Pechino e Bruxelles. Era sembrato uno spot propagandistico troppo facile, per un accordo che deve essere ancora ratificato dal Parlamento europeo. Le sanzioni dell’Ue contro la Cina di lunedì sono poche e prevedibili: colpiscono i rappresentanti politici e istituzionali dello Xinjiang, come Chen Mingguo, direttore della Pubblica sicurezza, e Wang Junzheng, capo della Commissione politica dello Xinjiang. L’Ue sanziona anche lo Xinjiang Production and Construction Corps, la società che “gestisce”, diciamo così, la sicurezza nella regione (quindi anche i campi “di rieducazione”), già colpita dalle sanzioni americane.  Era tutto molto prevedibile. E infatti Pechino lo sapeva.
Anche le sanzioni di reazione erano pronte da tempo. 

Il ministero degli Esteri cinese ha diffuso un comunicato poco dopo quello del Consiglio europeo parlando di sanzioni “basate su nient’altro che bugie e disinformazioni, che ignorano e distorcono i fatti, e interferiscono in modo grossolano negli affari interni della Cina”, ma, soprattutto, secondo i cinesi le sanzioni dell’Ue “violano il diritto internazionale e minano gravemente le relazioni Cina-Ue”. Pechino, “come reazione”, ha deciso di sanzionare due istituzioni fondamentali del processo democratico europeo: il comitato politico e di sicurezza dell’Ue e la sottocommissione del Parlamento europeo per i diritti dell’uomo. Nella lista nera cinese, poi, finiscono cinque parlamentari europei – Reinhard Bütikofer, Michael Gahler, Raphaël Glucksmann, Ilhan Kyuchyuk e Miriam Lexmann – e tre parlamentari nazionali: Sjoerd Wiemer Sjoerdsma del Parlamento olandese, il deputato belga Samuel Cogolati e la parlamentare lituana Dovile Sakaliene.

 

(LaPresse)

  
Tutte queste persone hanno a che fare con l’attivismo per i diritti umani e si sono espresse recentemente per una revisione dei rapporti europei con la Cina. L’europarlamentare tedesco Bütikofer in particolare, che fa parte dei Verdi europei, non è considerato un falco anticinese ma è da sempre molto attento alla questione dei diritti umani: in un articolo pubblicato sul Global Times, tabloid in lingua inglese del Quotidiano del popolo che definiremmo superpopulista, ha parlato di lui Wang Yiwei, direttore del Centro per gli studi europei della Renmin University cinese – un istituto finanziato anche dall’Ue –  e ha detto che  Bütikofer “avrebbe dovuto essere sanzionato molto tempo fa”, per aver sostenuto la causa di Hong Kong e degli uiguri nello Xinjiang. (Bütikofer ha scritto su Twitter: “Il governo cinese mi fa sapere che non posso visitare il paese. C’è sempre Taiwan”).

Oltre ai politici, però, c’è forse il vero e più grave obiettivo della Cina: Pechino ha annunciato le sanzioni contro Björn Jerdén, direttore del centro di studi sulla Cina all’interno dell’Istituto affari internazionali svedese, contro l’accademico tedesco Adrian Zenz, contro l’ong danese Alliance of Democracies Foundation e il Mercator Institute for China Studies, il think tank con sede a Berlino più grande e autorevole d’Europa per gli studi sulla Cina. Accademici, ricercatori e interi centri di ricerca colpiti dalle sanzioni non potranno più mettere piede nel paese che studiano, sul quale fanno ricerca. Secondo diverse persone ascoltate dal Foglio – che non vogliono comparire in questo articolo per la delicatezza della questione – la decisione cinese è soprattutto un monito nei confronti di tutti gli altri enti di ricerca che si occupano di Cina in occidente. Per molti di loro la gravità delle sanzioni cinesi ha a che fare con la libertà accademica e di ricerca, ma per altri è anche una questione di sicurezza, perché hanno dipendenti e studenti in Cina: “Michael Kovrig, il cittadino canadese in stato di arresto da oltre due anni per un problema politico tra Canada e Cina, era un ricercatore dell’International Crisis Group. E’ già da tempo che abbiamo paura”, dice al Foglio un analista di un think tank americano. Ed è lo stesso timore che hanno gli accademici giapponesi già da un po’, almeno dal 2019, quando Iwatani Nobu, docente di Storia dell’università di Sapporo, molto esperto di questioni cinesi, era stato accusato di spionaggio perché aveva nella sua stanza d’hotel pericolosissimi documenti sulla Guerra sino-giapponese che aveva comprato a Pechino. Il suo arresto durò pochi mesi grazie all’intervento della diplomazia. “In tutte le università europee ci sono dipartimenti che ospitano gli Istituti Confucio, prendono finanziamenti dalla Cina, e che evitano di fare ricerche e analisi sulla Cina contemporanea, per ragioni di opportunità: anzi, a volte si allineano alla propaganda e la narrazione cinese. Ma dopo queste sanzioni, anche per tutti gli altri sarà difficile parlare pubblicamente di Cina contemporanea”, dice al Foglio un ricercatore italiano in Cina. 

   

Il Merics, dopo l’annuncio delle sanzioni, ha chiesto ai suoi dipendenti di coordinarsi per le risposte ai media, e ha diffuso un comunicato nel quale respinge le accuse di faziosità da parte della Cina: “In qualità di istituto di ricerca indipendente, ci impegniamo a promuovere una migliore e più differenziata comprensione della Cina. Continueremo a perseguire questa missione presentando analisi basate sui fatti, con l’obiettivo di creare occasioni di scambio e dialogo – anche in tempi difficili”. Su Twitter – social network censurato in Cina –  Chen Weihua, capo dell’ufficio di Bruxelles del China Daily, uno dei falchi più aggressivi sul social, ha risposto: “E come farete a fornire un’analisi basata sui fatti senza poter visitare la Cina? Facendo speculazioni di seconda mano come tanti?”. E’ la strategia cinese: minare la credibilità delle analisi mistificando la realtà e soprattutto accusando personalmente gli autori.

Qualche giorno prima, l’ambasciata cinese in Francia se l’era presa con Antoine Bondaz, un ricercatore del think tank parigino Foundation for Strategic Research, definendolo “Petite frappe” e “hyène folle”, un bulletto, una iena folle, un troll. E nel settore del giornalismo le cose non vanno meglio: più di un mese fa Pechino ha vietato la trasmissione di Bbc World – ennesimo media internazionale non consultabile su territorio cinese se non attraverso vpn  – accusando la rete d’informazione inglese di “infrangere le linee guida” dopo i diversi servizi dedicati alla minoranza uigura nel paese. 

Tra ieri e oggi molti paesi europei tra cui Francia, Belgio e Germania hanno convocato i rispettivi ambasciatori cinesi. Le riunioni europee per implementare l’accordo Cai sono per ora sospese.

+++ Aggiornamento delle ore 21 +++

A seguito di azioni simili intraprese da parte di diversi paesi europei, tra cui Francia, Germania e Belgio, la Farnesina ha reso noto di aver convocato per mercoledì l'ambasciatore cinese in Italia, Li Junhua. Secondo quanto riportato dall'Ansa, lo riceverà il viceministro degli Esteri Marina Sereni.

 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.