Le donne turche in piazza a Istanbul, il 20 marzo scorso, contro la decisione di Erdogan di ritirare il paese dalla Convenzione contro la violenza sulle donne (Ansa)

La denuncia

“In Turchia noi donne viviamo ogni giorno come fosse una battaglia”

Valeria Sforzini

"Bruciate, sepolte vive, affogate. Sono uccise nei modi più brutali. Ho perso la fiducia e non penso più che abbia un senso restare per combattere”. La testimonianza di una ragazza di Ankara

“Sentivamo voci a riguardo da un anno, ma è da quest’estate, complice il lockdown, che abbiamo capito che la cosa stava diventando seria. Come è successo in tutti i paesi, le violenze domestiche sono aumentate di molto”. Ela Altay è una studentessa di 25 anni nata e cresciuta ad Ankara. Nel corso della sua vita ha avuto modo di studiare e di vivere in città e paesi diversi, da Parigi, a Venezia ad Amsterdam, dove sta concludendo un master in archeologia. Ogni volta che rientrava a casa, trovava il suo paese cambiato. Da un anno è tornata a vivere nella capitale. “Cerco di informarmi lo stretto indispensabile – racconta – per la mia salute mentale non leggo molto i giornali. Le cose stanno andando in modo terribile in Turchia ed è difficile distinguere le notizie vere da quelle dirottate dal regime”. Il ritiro deciso dal presidente Recep Tayyip Erdogan dalla Convenzione di Istanbul non è stato un evento inaspettato. “Mi sarei stupita se fosse successo il contrario”, spiega. 

 

Come riporta il sito Kadin Cinayetlerini Durduracagiz, “Fermiamo i femminicidi”, sono state circa 300 le donne uccise in Turchia nel 2020, e altre 171 sono morte in circostanze sospette. “Queste donne sono state ammazzate nei modi più brutali: bruciate, sepolte vive, affogate – continua  Ela – Se fino a qualche giorno fa gli uomini che picchiavano le loro mogli smettevano appena prima di ucciderle per timore delle conseguenze, adesso non hanno più ragione di fermarsi. Oggi io non prenderei un taxi da sola. O, se lo facessi, avviserei qualcuno prima. Valuto bene i quartieri che frequento. Ma è come se mi avessero tolto la possibilità di scegliere. Io sono una donna, mi sento una donna, ma non mi sento libera di camminare per strada con sicurezza, muovere i capelli o sorridere in un certo modo”. 

 

Il giorno in cui la Turchia ha formalizzato l’uscita dalla convenzione di Istanbul, le donne e le associazioni femministe sono scese in piazza a protestare, da Istanbul a Izmir. Ela Altay non si è unita alle proteste per paura delle conseguenze: “Ero sola – racconta – non c’era mia zia, con cui di solito partecipo alle manifestazioni, le mie amiche non si trovavano ad Ankara e io non mi sentivo al sicuro, non sapevo dove nascondermi nel caso in cui la situazione fosse degenerata. Oggi protestare in Turchia è un privilegio. Manifestare nella capitale non è come farlo a Istanbul, che è molto più aperta. Ma vivo ogni giorno come se fosse un campo di battaglia e il ritiro dalla Convenzione di Istanbul è come sentirsi dire che non puoi essere trattata equamente”. 

 

Figlia di professori universitari, Ela Altay ha potuto vedere il mondo conoscere realtà diverse da quella turca. “Dieci anni fa essere istruiti e fare parte dell’accademia aveva un valore, oggi i professori universitari e i giornalisti sono in prigione, esprimere un’opinione o contestare il governo sono atti sovversivi – racconta – Leggere, informarsi e avere una propria idea delle cose non conviene più. In metropolitana i libri sono scomparsi”. Cresciuta in una famiglia atea, si è confrontata negli ultimi anni con un inasprimento delle convenzioni sociali legate al tentativo del governo di andare incontro alle richieste della fetta più estremista della popolazione. “La pressione cresce e si moltiplica con il tempo, l’ho notato dalle piccole cose – spiega – Sono atea al cento per cento, ma non posso essere completamente me stessa in pubblico.

 

Non ho nulla contro la religione, ma non capisco perché non credere implichi essere tagliati fuori dalla società”. Il futuro della studentessa non è in Turchia, ma le opzioni non sono molte. “Ho perso la fiducia e non penso più che abbia un senso restare per combattere – racconta – Ma le alternative sono poche. La crisi economica sta distruggendo il paese e tutta la popolazione ne sta soffrendo. Gli stipendi delle persone bastano a malapena per pagare l’affitto”. Il crollo della lira turca e il cambio ai vertici della Banca centrale ne sono una prova.

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