Le donne, la politica, la leadership

Rivoluzionaria Ruth

E' morta a 87 anni Ruth Bader Ginsburg, giudice della Corte Suprema, architetto della protezione dei diritti delle donne in America

Paola Peduzzi

Non c'è stata donna più forte e determinata a difendere i diritti delle donne, ma quel che conta è che la Ginsburg lo ha sempre fatto senza piagnucolare, perseguendo la sua indipendenza e cercando quella delle altre donne, ispirandosi al suo egoismo e alla sua ambizione di quando si iscrisse alla scuola di Legge: non vogliamo i diritti perché vi facciamo pena, ce li prendiamo, i diritti, perché siamo brave

“Mia madre mi ripeteva in continuazione due cose: di essere una signora e di essere indipendente”, raccontava Ruth Bader Ginsburg con quella sua voce da ragazza, leggera e d'acciaio insieme. “Studiare legge allora era inusuale per le ragazze come me che diventavano grandi negli anni Quaranta”, ma lei non si era iscritta alla Law School di Harvard per essere una delle nove donne che allora frequentavano la scuola ma “per ragioni personali ed egoistiche. Pensavo che avrei fatto il lavoro di avvocato meglio di chiunque altro. Non ho un gran talento per le materie umanistiche, ma scrivo abbastanza bene e so analizzare in modo chiaro i problemi”.

La Ginsburg, seconda donna della storia nominata alla Corte Suprema d'America, è morta a 87 anni di tumore al pancreas: era malata da tempo, il suo corpo piccolo e sottile si era piegato, era comparso lo scialle sulle spalle ricurve nelle occasioni pubbliche, ma restava quella voce limpida e battagliera a rassicurarci – non può morire, non morirà mai. Non voleva – né lei né i suoi sostenitori né i liberal – che il suo sostituto fosse scelto da Donald Trump, che già ne ha nominati due, bottino enorme per un presidente, e così resisteva e resisteva, a ogni ricaduta, a ogni ricovero, ci faceva sapere: niente di grave, non preoccupatevi.

E' già scoppiata la battaglia politica sulla Ginsburg, perché in questa stagione frettolosa di posizioni da conquistare non c'è nemmeno il tempo per un lutto composto verso l'istituzione più prestigiosa d'America, quella della fiducia assoluta e perenne (i giudici supremi sono nominati a vita), e verso la Ginsburg che si è seduta nella Corte Suprema nel 1993, ventisette anni fa. Il tempo per il lutto non c'è, i trumpiani vanno veloci, a cadavere ancora caldo, e i liberal frenano e si indignano, ma al di là della battaglia politica già aperta, è l'eredità della Ginsburg che deve essere custodita. Rischia infatti di essere trascinata nelle guerricciole superficiali di questi tempi, perché certo non c'è stata donna più forte e determinata a difendere i diritti delle donne, ma quel che conta è che la Ginsburg lo ha sempre fatto senza piagnucolare, perseguendo la sua indipendenza e cercando quella delle altre donne, ispirandosi al suo egoismo e alla sua ambizione di quando si iscrisse alla scuola di Legge: non vogliamo i diritti perché vi facciamo pena, ce li prendiamo, i diritti, perché siamo brave.

La Ginsburg è diventata l'architetto del movimento per la protezione legale delle donne cominciando da se stessa: combattendo i pregiudizi dei presidi alla scuola di legge (passò da Harvard alla Columbia per seguire il marito di tutta la vita, Marty, e intanto mise al mondo la sua prima figlia, arrivando comunque prima in graduatoria) e quelli dei datori di lavoro che dicevano “non mi sento ancora di lavorare con una donna” – lo disse quando fu nominata da Bill Clinton nel 1993, nel suo discorso: “Nel 1959 nessuno studio legale nella città di New York accettò la mia candidatura”. Quando negli anni Sessanta insegnava alla Rutgers, la Ginsburg scoprì di essere pagata meno dei suoi colleghi e organizzò una manifestazione dicendo: non possiamo essere solo donne, devono esserci anche gli studenti. Questo divenne un pilastro della battaglia della Ginsburg: “Penso di essere stata enormemente fortunata a essere qui quando era possibile muovere la società in una direzione di cui avremmo beneficiato tutti – disse molti anni dopo – Ognuno di noi ha un beneficio se poniamo fine alla discriminazione di genere”. La parità conviene anche agli uomini.

 

Alla Corte Suprema, la Ginsburg ha costruito questa parità e protezione passo dopo passo, dal suo primo saggio sul codice civile svedese e le sue applicazioni nella società americana fino alle sentenze più importanti per i diritti delle donne, quella sull'aborto e molte altre. Velocissima nello scrivere le opinioni, affilata e precisa nelle domande durante le testimonianze, la Ginsburg era famosa anche come “l'amica dei conservatori”, cosa indicibile oggi, ma naturale per lei che faceva del dialogo e del confronto la sua forza: non perché volesse essere quella buona, la classica donna più gentile ed empatica degli uomini. No, lo faceva perché sapeva di essere all'altezza, anzi anche più su e rideva quando sentiva dire che gli americani avrebbero dovuto sentirsi un po' in imbarazzo a guardare le fotografie della Corte, otto uomini e una signora fragile in mezzo. Non si è mai sentita fragile, la Ginsburg, e non ha mai giocato con la fragilità per ottenere qualcosa.

La rivoluzione di Ruth Bader Ginsburg è stata questa: impostare la battaglia per i diritti delle donne come una lotta tra pari, non ci dovete nulla in quanto femmine, ma in quanto persone. E non ha mai pensato, nemmeno per un attimo, che questa lotta potesse finire, perché i diritti si conquistano ma soprattutto si mantengono, con l'attenzione e la cura, con l'ambizione di essere soddisfatti soltanto quando, e forse, tutti i giudici della Corte Suprema saranno donne.

E non è un caso che questa rivoluzione sia stata cullata in un grande, splendido romanticismo: l'amore della vita trovato prestissimo e mai lasciato, l'attenzione per tutte le storie d'amore che nascevano attorno a lei sul lavoro, la passione per la musica, l'opera, la poesia. Fece piangere Bill Clinton, il giorno della sua nomina, nel Rose Garden, quando disse: “Penso di essere come sarebbe stata mia madre se avesse vissuto in un'epoca in cui le donne possono avere ambizioni e ottenere dei risultati, e in cui le figlie sono preziose come dei figli”.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi