Bambini uiguri giocano a Hotan, nella regione dello Xinjiang, nella Cina occidentale (Foto 2018 Ap / Ng Han Guan)

Il figlio unico torna in Cina

Giulia Pompili

C’è una campagna di sterilizzazione di massa nella regione dello Xinjiang, ma Pechino nega sempre tutto sugli uiguri, anche i campi di rieducazione. Le politiche “draconiane” contro i diversi, non solo per il virus

Roma. Controllo delle nascite, sterilizzazioni di massa, separazioni forzate. Per controllare la regione autonoma dello Xinjiang, a maggioranza uigura, il governo di Pechino a partire dal 2016 “ha trasformato la regione in uno stato di polizia draconiano”. A scriverlo è Adrian Zenz, antropologo tedesco tra i maggiori studiosi dello Xinjiang, che ha pubblicato un nuovo, dettagliato studio attraverso l’Ipac, la Inter-parliamentary Alliance on China – istituzione nuova di zecca che raccoglie parlamentari da tutto il mondo (Italia compresa) per studiare la Cina. Lo studio, pubblicato ieri, è un nuovo tassello nella comprensione di quello che sta accadendo all’interno dei confini cinesi, specialmente in quelle regioni che sono considerate da Pechino un intralcio all’armonizzazione della cultura e dell’identità cinese. Tibet, Xinjiang, ma anche Hong Kong sono le regioni la cui autonomia è lentamente e programmaticamente limitata. Zenz ha messo insieme le testimonianze di vari uiguri – una minoranza di religione musulmana e di etnia turcofona che oggi rappresenta il 45 per cento degli abitanti dello Xinjiang, il vero obiettivo dell’“armonizzazione” cinese – con i dati del governo ed è arrivato a risultati concreti. “La crescita naturale della popolazione nello Xinjiang è diminuita drasticamente; tra il 2015 e il 2018 i tassi di crescita sono diminuiti dell’84 per cento nelle due più grandi prefetture uigure, e sono ulteriormente diminuiti nel 2019. Per il 2020, una delle regioni uigure ha fissato un obiettivo senza precedenti di crescita della popolazione vicina allo zero: solo l’1,55 per mille, rispetto a un già basso 11,45 per mille nel 2018. Tale obiettivo sarà realizzato attraverso la ‘pianificazione familiare’. Documenti governativi dicono che le violazioni del controllo delle nascite sono punibili con l’internamento stragiudiziale nei campi di ‘addestramento’”. Altri documenti governativi trapelati lo scorso anno rivelano una “campagna di sterilizzazioni forzate che ha come obiettivo tra il 14 e il 34 per cento della popolazione femminile sposata nel sud dello Xinjiang”. Secondo lo studio, il progetto avrebbe il sostegno economico crescente del governo centrale. Adrian Zenz è un personaggio noto tra chi si occupa di Cina ma non del tutto indipendente: è un evangelico conservatore, che considera l’omosessualità il braccio armato di Satana, e che ha idee molto vicine all’estrema destra americana. Eppure i suoi risultati sullo Xinjiang sono condivisi da controinchieste di media internazionali. Un’indagine parallela dell’Associated Press, pubblicata sempre ieri, corrobora le tesi di Zenz: molte donne già in precedenza avevano parlato della campagna di sterilizzazioni forzate, scrive l’Ap, “ma la pratica è molto più diffusa e sistematica di quanto precedentemente noto”. Fino a qualche anno fa anche dei campi di internamento dello Xinjiang non sapevamo nulla. C’era il sospetto che il governo di Pechino stesse utilizzando delle strutture, rilevate attraverso le immagini satellitari, per controllare la popolazione che secondo la Cina è “ad altissimo rischio terrorismo”. Furono delle inchieste di media internazionali a sollevare il problema a livello globale, e solo dopo la pubblicazione di alcuni reportage, attorno al 2017, Pechino ha ammesso l’esistenza di “campi di rieducazione”, luoghi dove gli uiguri vengono “rieducati” ai princìpi cinesi. Il problema è che nei campi non finiscono soltanto i sospettati di estremismo islamico: nel 2017 le Nazioni Unite hanno ritenuto credibile la stima di un milione di persone attualmente detenute nei campi definiti “di rieducazione politica”.

  

Alcuni esperti lo chiamano “genocidio demografico”. Il sospetto è che i campi di “rieducazione” assieme al controllo della popolazione uigura serva, come obiettivo finale, a “sostituire” la minoranza musulmana e turcofona con il gruppo Han, quello maggioritario della Cina. Quel che è certo è che l’accelerazione sul “draconiano” controllo dello Xinjiang è recente. Come ricorda l’Ap, fino a qualche anno fa la politica del figlio unico in Cina, che sin dal 1979 vietava alle donne di avere più di un figlio, colpiva soprattutto i cinesi di etnia Han, mentre per le minoranze non si applicava alcuna legge. La pianificazione familiare però, sul lungo periodo, ha avuto conseguenze disastrose sulla demografia cinese, e la politica del figlio unico è stata abolita ufficialmente nel 2013. L’anno successivo il presidente cinese Xi Jinping è andato in visita nello Xinjiang, e subito dopo è stato dato il via al progetto per il controlmilo delle nascite di “tutte le etnie”. “L’intenzione potrebbe non essere quella di eliminare completamente la popolazione uigura, ma di ridurre drasticamente la loro vitalità, rendendo più facile assimilarli”, ha detto all’Ap Darren Byler, esperto di uiguri dell’Università del Colorado. “Questo rapporto è di fondamentale importanza perché fornisce ulteriori prove rispetto a precedenti testimonianze”, dice al Foglio Laura Harth, del Partito Radicale/Global Committee for the Rule of Law “Marco Pannella”, che ha lanciato il report in Italia. “Sono documenti che andrebbero verificati, l’Ipac chiede infatti che si attivino i meccanismi per un’indagine indipendente e imparziale al più presto. E’ un obbligo interessarsi alla questione per tutti quei paesi che hanno sottoscritto la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio del 1948, e specialmente in un momento come questo, in cui le istituzioni internazionali sono sempre più in difficoltà nell’azione concreta. Se la Cina non avesse niente da nascondere non dovrebbe far altro che aprire un’indagine”. Nello Xinjiang i giornalisti possono accedere molto difficilmente, se non accompagnati o attraverso “press tour” organizzati dal governo che solitamente hanno come obiettivo quello di magnificare l’efficienza del sistema di rieducazione.

  

Lo Xinjiang è anche uno dei territori su cui si muove la complicata relazione tra America e Cina, e la sorte degli uiguri è quindi legata alla politica tra Donald Trump e Xi Jinping. Secondo quanto riportato nel suo libro dall’ex consigliere per la Sicurezza nazionale di Trump, John Bolton, il presidente americano avrebbe almeno una volta lodato gli sforzi di Xi per “controllare” lo Xinjiang, un modo neanche troppo velato per avere in cambio il sostegno economico cinese per la sua rielezione a novembre. Ma il 17 giugno scorso Trump ha firmato la legge “Uyghur Human Rights Policy Act of 2020”, che gli permette di imporre sanzioni contro i funzionari cinesi considerati responsabili della detenzione di massa degli uiguri e di altre minoranze musulmane nello Xinjiang. E’ possibile che anche questa, da parte americana, sia semplicemente una minaccia. Ma i nuovi dettagli sul trattamento delle minoranze etniche nello Xinjinag meritano un’analisi indipendente e lontana dalla politica.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.