(foto LaPresse)

I complici di Trump

Paola Peduzzi

Perché molti repubblicani tacciono o fanno finta di niente? Il rischio e la speranza dietro a questo silenzio

Milano. La storia giudicherà i complici, ha scritto la saggista Anne Applebaum sull’Atlantic, interrogandosi sul perché il Partito repubblicano abbia deciso di “abbandonare i propri princìpi per sostenere un presidente immorale e pericoloso”. La storia giudicherà i complici, e pare che la storia sia già qui, all’improvviso, a chiedere il conto ai repubblicani proprio nel mezzo delle rivolte di piazza e di palazzo, e a pochi mesi dall’unico evento che conta davvero per un apparato politico: le elezioni. La storia del Grand Old Party nell’epoca di Donald Trump è presto raccontata: il corpo estraneo è stato metabolizzato perché combattere il presidente mentre si ha la maggioranza al Congresso (persa nel 2018) e al Senato ha un insopportabile – e ingiustificabile – sapore di autolesionismo. Così piano piano il partito si è adattato a Trump, e la resistenza del mondo conservatore – i cosiddetti NeverTrump – è diventata un esercito sparuto di intellettuali e giornalisti sempre meno ascoltata. La complicità è stata misurata di recente – era solo lo scorso gennaio – con l’impeachment contro Trump, l’occasione per le istituzioni americane di mettere ordine nel caos ideologico e pratico di questa presidenza, ma non è stata sfruttata per la semplice ragione che non era politicamente conveniente. Il Partito repubblicano ha sempre vissuto nell’illusione di poter fare, quando necessario, da argine agli eccessi trumpiani, e per questo ha smesso ogni forma di resistenza interna: la useremo quando servirà, dicevano i repubblicani, non certo per assecondare i piani dei rivali democratici. Ma in questi giorni di proteste in cui l’argine serviva eccome, i repubblicani non sono riusciti a costruirlo, e anzi sono rimasti schiacciati dalla brutalità della reazione presidenziale.

 

Il dissenso dentro ai repubblicani c’è: l’apparato militare si è ribellato in blocco, a partire dal segretario alla Difesa Mark Esper, così come alcuni senatori e deputati. Ma il partito per la maggior parte vuole tacere o addirittura far finta di nulla. E’ diventato virale il video del senatore repubblicano del Wisconsin Ron Johnson che interrogato sulla risposta dura di Trump alle proteste fuori dalla Casa Bianca e alla sua photo opportunity con la Bibbia in mano ha risposto: “Non l’ho visto”. Il senatore repubblicano dell’Ohio Rob Portman, alla stessa domanda, ha risposto: “Sono in ritardo per pranzo”. Oltre alla complicità distratta c’è ovviamente anche quella dichiarata. Il senatore dell’Arkansas Tom Cotton ha pubblicato sul New York Times un commento dal titolo: “Mandate le truppe”, ed è in corso una rivolta dentro al quotidiano perché ha dato spazio a una considerazione del genere. La Applebaum ieri ha segnalato su Twitter il silenzio di collaboratori stretti del presidente: Mike Pompeo e William Barr, rispettivamente segretario di stato e alla Giustizia, e soprattutto Mike Pence, il vicepresidente, “l’unico che non corre nemmeno il rischio di essere licenziato”.

 

Il problema però per i repubblicani ora è un altro, ed è qui che la storia arriva a chiedere di fretta conto della complicità. Il patto implicito del sostegno del Partito repubblicano a Trump, nonostante la sua aticipità, era di tipo puramente politico: con Trump si vince. Piaccia o no, Trump ha intercettato un elettorato che lo ha portato alla Casa Bianca tra la sorpresa di tutti, soprattutto dei repubblicani. Si abbandona un cavallo vincente? No. Ma quest’ultima crisi, sommata alla non-gestione della pandemia, sta mostrando i limiti del trumpismo. Nella sua newsletter quotidiana, Mike Allen di Axios ha raccolto le voci di alcuni repubblicani “molto più preoccupati delle possibilità di rielezione di quanto lo fossero una settimana fa”. In Texas, dove Trump aveva vinto nel 2016 con 9 punti di vantaggio, i sondaggi danno un pareggio tra il presidente e il candidato democratico, Joe Biden. Stessa cosa in Ohio, mentre in Wisconsin Trump è peggiorato molto e velocemente. In Arizona, swing state vinto da Trump nel 2016 con tre punti di vantaggio, è avanti Biden di quattro. Fonti della campagna elettorale dicono che in questo momento il pericolo più grande viene dagli elettori indipendenti o moderati. Non c’è ancora panico, scrive Allen, ma molta preoccupazione. E una speranza: che si imponga la cosiddetta dinamica “Nixon 1968”, fondata su “law and order” e che possa alla fine premiare Trump. Così la scommessa della complicità sarà vinta.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi