Un manifestante a Beirut arrestato dalla polizia antisommossa (LaPresse/Hussein Malla)

I simboli della rabbia del Libano

Rolla Scolari

Ogni protesta ha i suoi fantasmi. Dal Cairo a Baghdad, fino a Beirut dove i cittadini sono tornati in piazza e hanno assalito le banche

Lo avevano detto: sarebbe stata “la settimana della rabbia”. E così è stato. Il ritorno nelle piazze libanesi del dissenso ha scatenato da martedì scontri ovunque tra i manifestanti e le forze dell'ordine di un paese che protesta da 96 giorni ed è senza un governo da oltre 80.

  

Se da una parte esercito e polizia hanno tentato di contenere la ripresa delle contestazioni con forza eccessiva e l'uso di cannoni ad acqua e lacrimogeni lanciati contro una maggioranza pacifica, dall'altra alcuni gruppi di manifestanti hanno assalito le facciate, i bancomat e le vetrine di centinaia di banche attraverso il Libano.

 

  

Gli istituti di credito sono diventati oggetto della frustrazione di una popolazione che sente sempre di più nella vita quotidiana il peso della crisi economica e finanziaria. E sono per la piazza il simbolo di tutto quanto la protesta rifiuta: la corruzione, le relazioni tra élite politiche e finanziarie, l'incapacità dei governi e delle amministrazioni di gestire un'economia al collasso. Così, adesso che settimane di stallo istituzionale hanno soltanto peggiorato la situazione, si creano file ai bancomat e agli sportelli. Le banche hanno imposto restrizioni settimanali sul ritiro in dollari e sui bonifici esteri. E i rifiuti pesano sulla popolazione. C'è stato chi quando si è visto negare una somma ha sequestrato l'impiegato allo sportello – è accaduto al nord, nella regione di Akkar – chi si è presentato poi con un gruppo di manifestanti – è successo nel sud, a Sidone. La situazione è al limite: in un paese in cui il debito pubblico è di 78 miliardi di euro, il 150 per cento del Pil, la lira libanese è crollata: 2.500 sul dollaro, mentre il tasso di cambio ufficiale è a 1.500. Così, a Beirut ci sono state proteste davanti alla Banca centrale del governatore Riad Salameh. Si è manifestato davanti alle filiali degli istituti di credito nazionali e c'è chi ha lasciato che la frustrazione esplodesse in vandalismo.

   

Le banche sono diventate in Libano il simbolo della corruzione di una classe economica e politica accusata di non fornire alla popolazione i servizi più basilari e che nel momento di crisi è incapace di trovare una soluzione. In seguito alle dimissioni a ottobre del premier Saad Hariri, la nomina dell'ex ministro dell'Educazione, il poco conosciuto professore universitario Hassan Diab, non ha risolto lo stallo. E l'irrequietezza cresce. Benché il neo primo ministro (non ancora attivo, visto che il governo uscente resta ad interim) sostenga una squadra di tecnocrati, come richiesto anche dalla piazza, il presidente cristiano Michel Aoun e i suoi alleati sciiti di Hezbollah e Amal restano ancorati alla pretesa di un governo politico che possa garantire la loro permanenza al potere.

  

  

Ogni rivolta ha i propri fantasmi, quei simboli di oppressione e frustrazione contro cui esplode e si riversa la rabbia delle folle scese in piazza, al limite della sopportazione. Lo prova la rabbia con cui i manifestanti hanno dato alle fiamme il 28 gennaio 2011, dopo una giornata di scontri e violenze al Cairo, il quartier generale dell'Ndp, il partito dell'ex dittatore Hosni Mubarak. Quell'edificio era considerato il covo del clan che ha deciso le sorti dell'Egitto per decenni. Accade oggi in misura diversa in Libano con le banche. Succede in altri paesi della regione, le cui sollevazioni, come prova la solidarietà tra le piazze, hanno molto in comune con le contestazioni di Beirut. Sono infatti ancora una volta le banche a essere state prese d'assalto in Iran ad agosto, quando a causa del ritorno totale delle sanzioni americane contro il regime di Teheran il prezzo del carburante è salito. Pochi mesi prima, tra dicembre e gennaio, quando sono iniziate nelle periferie più remote del vasto paese le contestazioni contro il governo, dettate da rivendicazioni sociali ed economiche diventate in poco tempo politiche, gli istituti di credito a essere presi di mira sono stati quelli chiaramente legati agli interessi delle Guardie della Rivoluzione e del clero al potere in Iran. E benché il regime di Teheran quando è minacciato dalle proteste sollevi spesso lo spettro delle “interferenze straniere”, la popolazione sembra non avere dubbi: a essere attaccati a dicembre 2017 come a novembre 2019 sono stati scuole religiose e seminari dove quello stesso clero è formato per diventare casta politica.

 

 

Nell'Iraq della nuova era di dissenso, invece, l'assalto ripetuto ai consolati iraniani, persino nella città più sacre allo sciismo come Kerbala e Najaf, racconta esattamente l'origine della frustrazione popolare. È l'influenza politica di Teheran nei corridoi del potere di Baghdad e l'attività di milizie sciite legate al regime iraniano sul territorio iracheno l'obiettivo della rabbia di una popolazione che chiede una politica nazionale indipendente capace di investire denaro in infrastrutture, educazione, risanamento dell'economia.

  

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