“Soviet hippies”, il documentario sull'altra Unione sovietica, quella a colori

Intervista alla regista Terje Toomistu: “In Urss dove chiunque poteva essere una spia, nessuno si fidava degli altri, soltanto i figli dei fiori, il loro era un altro paese”

Micol Flammini

“Mi avevano sempre raccontato l’Unione sovietica in bianco e nero”, dice Terje Toomistu, mentre a Tallinn c’è il sole e lei sorride raccontandoci della sua passione che è diventata un viaggio, che è diventato un documentario sulla cultura degli hippie, sulla loro esistenza e resistenza all’interno dei confini sovietici, che verrà trasmesso questa sera su Sky Arte. “Non so dire il momento esatto in cui tutto è iniziato, ma avevo appena letto un libro di memorie di uno di loro, Vladimir Wiedemann, e davanti agli occhi mi è comparsa un’Unione sovietica colorata, piena di luci e di musica”.

 

  

Per realizzare Soviet hippies, Terje Toomistu ha impiegato sette anni, sette anni di ricerche, di viaggi, di inseguimenti, per scoprire che quel mondo pacifista, perseguitato dal Kgb che faticava a capirlo, era ancora vivo e scorreva, fluido, da un paese all’altro dell’ex Unione sovietica. Terje è estone ed erano proprio i paesi baltici quelli in cui i figli dei fiori sovietici avevano iniziato a creare la loro comunità. I confini più morbidi e porosi dell’Unione sovietica, quelli attraverso i quali passava una cultura incomprensibile ai più, ai tempi nessuno parlava l’inglese, ma pur di ascoltare i Beatles faceva qualsiasi cosa.

  

“Ho deciso di approfondire e di viaggiare per conoscere questi hippie ormai non più giovani, e più parlavo con loro più scoprivo che l’Unione sovietica così come me l’avevano fatta conoscere – sono cresciuta in un ex paese dell’Urss negli anni Novanta – aveva dei lati nascosti, era un paese che amava la libertà, che resisteva. Volevo raccontare una storia diversa dell’epoca sovietica”. Gli hippie sovietici non sono più sovietici ma rimangono sempre hippie, sono ancora una rete fitta di amici che condividono una storia comune, capelloni un po’ sdentati che vivono ancora secondo i princìpi dell’amore, del sesso e della libertà. Il rapporto con il potere e con il Kgb, la polizia segreta che oggi si chiama Fsb, era un continuo fuggirsi e ritrovarsi, senza volerlo, uno di fianco all’altro. Gli hippie volevano soltanto essere apolitici e liberi, ma questa loro voglia di libertà era di per sé un atto politico, le spie li seguivano, li cercavano, tentavano di tracciare i loro movimenti, ma non era semplice. Si muovevano continuamente, non usavano telefoni, andavano in autostop, e il loro modo di vivere, di esistere, risultava quasi incomprensibile per i servizi segreti.

  

Tra gli hippie dell’ovest e quelli dell’est non c’era molta differenza, la cultura era la stessa, anche la musica, spesso a est fabbricavano strumenti musicali da soli. A essere diverse erano le regole dello stato, ma per il resto si trattava di due mondi sovrapponibili. “L’Unione sovietica non era tutta sigillata, c’era uno scambio con l’occidente soprattutto per i paesi baltici. Gli estoni ad esempio guardavano la televisione finlandese, spesso erano i soldati a portare dischi o giornali che parlavano di musica”. I soldati? “Sì, i soldati sovietici, viaggiavano molto fuori dai confini e portavano quello che volevano, anche i jeans. Alla fine gli hippie sovietici sapevano più della cultura hippie di quelli occidentali”, era un frutto proibito, un giardino segreto dove ascoltare il vento e la musica rock, se possibile nudi. Tutto si diffondeva con rapidità, i dischi, le canzoni, i jeans. “Mentre viaggiavamo succedevano cose bizzarre, strane coincidenze, incontri particolari, non facevo altro che maledirmi perché appena spegnevo la telecamera succedeva immediatamente qualcosa – racconta Terje che prima di diventare regista ha studiato antropologia – ma c’è un momento in particolare al quale penso spesso”.

  

Terje era in viaggio con alcuni degli hippie intervistati. “Eravamo diretti a Smolensk, in Russia, e avevamo bisogno di un posto in cui dormire, allora abbiamo chiamato un hippie che viveva in quella zona, Fanya, per chiedere di ospitarci. Eravamo in dieci e Fanya ha subito accettato, ma quando siamo arrivati a Smolesnk non era in casa”. Nel documentario Terje riprende l’arrivo, in casa hanno iniziato a far festa, a fumare e a chiacchierare, “siamo ripartiti la mattina seguente e tre giorni dopo abbiamo scoperto che Fanya era morto. Era scappato dall’ospedale per venire a salutare i suoi amici, tanto era il desiderio di passare la serata con loro, ma questa era la cultura hippie, così è ancora quarant’anni dopo, questo era il sistema”. Gli hippie avevano un loro slang, esistono anche dei vocabolari per comprenderlo, e tra le parole più popolari c’è proprio il termine sistema (si pronuncia sistiema) che indicava questo modo di vivere, la condivisione, la rete, la possibilità di trovare ovunque un alloggio, un pasto, un passaggio. “Alla base c’era la fiducia, si fidavano l’uno dell’altro. In Unione sovietica dove chiunque poteva essere una spia, nessuno si fidava degli altri, soltanto gli hippie, il loro era un altro paese”. Ultima tappa del viaggio di Terje Toomistu: Mosca dove ogni primo giugno c’è un grande raduno per onorare la manifestazione del 1971 in cui ci furono forti scontri con la polizia. Tra hippie vecchi e nuovi, ideali di un tempo e di oggi, mentre la cultura occidentale non è più segreta né tanto meno inaccessibile, si parla di Vladimir Putin e della guerra in Ucraina. C’è chi dice di vergognarsi, perché la Russia è sempre uguale a se stessa, chi dice invece di essere d’accordo con il Cremlino e chi sostiene sia meglio lasciar stare la politica, continuare a ballare.

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