foto tratta da Netflix

Per capire il difficile triangolo tra Washington, Canberra e Pechino guardate la tv

Giulia Pompili

“Pine gap” su Netflix è piena di spunti d’attualità

Roma. Uno dei vantaggi di scrivere fiction ambientate nel vasto contenitore della politica estera è quello di trattare temi che, altrimenti, sarebbero confinati alle discussioni degli addetti ai lavori. Ma la fiction, in realtà, permette anche di tirare fuori argomenti considerati politicamente scorretti, e darne una lettura un po’ meno mainstream. E’ questo uno dei punti di forza di “Pine Gap”, serie tv australiana attualmente alla prima stagione e composta da sei episodi, aggiunta al catalogo di Netflix la scorsa settimana. La trama è abbastanza ordinaria, se messa a confronto con le complicatissime sinossi dei più recenti political thriller: c’è una base segreta d’intelligence, c’è una spia all’interno della base segreta, c’è una storia d’amore tra i due più fighi tra i protagonisti, che poi sono anche i più brillanti e meritevoli. E’ tutto il contorno, in “Pine Gap”, che fa la differenza con le altre, i dialoghi che funzionano meglio di qualsiasi analisi geopolitica nel mostrare il punto di vista australiano delle faccende asiatiche.

 

La prima puntata si apre con la riunione dell’Apec, alla presenza del primo ministro australiano e del presidente americano Larry Kerr. Dai titoli dei telegiornali si capisce che i due non vanno molto d’accordo: Kerr pare non volere rinnovare l’Anzus, il trattato di mutua difesa tra Washington, Canberra e Wellington. E’ un tema discusso spesso, ultimamente, e il motivo lo spiega il personaggio australiano, in poche parole, parlando con un collega americano: “Pensi che in caso di conflitto gli Stati Uniti sceglierebbero l’Australia rispetto al Giappone? Alla Corea del sud? Il trattato Anzus dice solo che considererete di supportarci. Il nostro primo ministro ha chiesto al presidente di garantirglielo, e lui ha appena detto di no. Molti australiani non sono più tanto sicuri che se le cose dovessero mettersi male voi ragazzi verreste ad aiutarci”. L’Apec nella serie si tiene a Sittwe, e non a caso: Sittwe è il capoluogo dello stato Rakhine, in Myanmar, il posto dove le Forze armate di Yangon si scontrano con la minoranza musulmana rohingya. L’azione invece si svolge a Pine gap, che (anche nella realtà) è una delle basi più segrete dell’intelligence del Five Eyes, il consorzio di spie di cui fanno parte America, Canada, Australia, Inghilterra e Nuova Zelanda. La base di Pine gap, a pochi chilometri da Alice Springs, è gestita da America e Australia, che dovrebbero condividere tutti i dati – in nome di quell’alleanza strategica che sempre più spesso, anche ultimamente, viene messa in discussione. Un team di sorveglianza segue la sicurezza dell’Apec grazie ai satelliti, rintraccia un missile armato sparato a pochi chilometri da Sittwe, sul confine con il Bangladesh, che colpisce un aereo civile con undici persone. I primi sospetti ricadono sugli estremisti islamici, poi finiscono sugli estremisti buddisti – egualmente pronti a tutto.

 

Poi c’è un’altra storia parallela, quella che riguarda la Cina. C’è un imprenditore cinese che vuole acquisire una miniera a una trentina di chilometri dalla base di Pine gap: gli americani tentano di impedirglielo, ma gli australiani – come da tempo già accade, anche fuori dalla fiction – non sono così contrari: i cinesi portano soldi e posti di lavoro. E perfino quando una nave della Malaysia, appoggiata da Washington, sconfina nelle acque del Mar cinese meridionale reclamate da Pechino, perfino quando la Cina le sgancia sopra una potentissima Bomba-E, un ordigno elettromagnetico che “spegne” gli impulsi elettrici ma non fa morti, c’è una discussione interessante nella sala degli spioni: “Erano in acque internazionali”, dice lui. “Non secondo la Cina”, replica lei. “E perché la Cina può semplicemente ignorare la legge marittima internazionale?”, dice lui. “Anche l’America lo fa”, dice lei.

 

Con “Secret City” prima, e ora “Pine gap”, da un po’ di tempo l’Australia ci sta regalando grandi prodotti tv, che forse ci avvicinano a oriente meglio dei nostri canali mainstream.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.