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Nel Donbass al voto Mosca cerca una normalizzazione che sa di disimpegno

Micol Flammini

La morte del leader separatista Alexander Zakharchenko ha costretto tutti, russi, filorussi e ucraini, a pensare con serietà alla necessità di un cambiamento nelle regione

Roma. Il Donbass non è ancora stanco di combattere e se soltanto due mesi fa Donetsk e Lugansk, le due repubbliche non riconosciute che si sono autoproclamate indipendenti nel 2014, avevano detto che non ci sarebbero state nuove elezioni – mancavano i fondi, i leader e le misure di sicurezza –, ora hanno deciso che le elezioni ci saranno e si faranno l’11 novembre.

 

La morte del leader separatista Alexander Zakharchenko, ucciso a fine agosto, ha costretto tutti, russi, filorussi e ucraini, a pensare con serietà alla necessità di un cambiamento nelle regione, soprattutto a Donetsk. Bastano le liste e i nomi dei candidati per capire quali sono i prescelti per Mosca e quale sarà il futuro, sempre scelto dal Cremlino, delle due repubbliche. Il futuro sarà sicuramente diverso, anche soltanto esteticamente. Alcuni dei nuovi candidati hanno abbandonato la divisa e nelle foto della campagna elettorale indossano giacca e cravatta: la lenta metamorfosi dei leader da combattenti a politici. Dai nomi, dalle scelte stilistiche, dalle foto, si capisce anche la diversa visione che la Russia ha delle due repubbliche. Lugansk è la parte bellicosa, il candidato favorito è Leonid Pasechnik, ex ministro per la Sicurezza della regione e ancora prima capo dipartimento del Servizio di sicurezza ucraina (Sbu). Nel 2017 ha preso il posto di Plotniski, leader poco amato nella Repubblica e a Mosca, e in questo anno ha evitato incidenti, aggressioni, gravi attacchi. La campagna elettorale a Donetsk è più complessa e turbolenta. E’ intenzione della Russia fare di questa repubblica filorussa uno strumento di mediazione. Il favorito, Danis Pushilin, è impopolare, il Cremlino sta tentando di riabilitare la sua reputazione, ma prendere il posto di Zakharchenko non è facile. Zakharchenko rappresenta ancora il simbolo del separatismo, della lealtà alla causa filorussa, era un uomo rispettato. Pushilin è l’opposto e così vuole Mosca che ha bisogno di un capro espiatorio. Di un nuovo leader al quale addossare ogni responsabilità di qualsiasi futuro fallimento. C’è bisogno di qualcuno che comunichi le cattive notizie e in questo Pushilin è perfetto. Se a Lugansk ci sono alcuni militari nelle liste elettorali, a Donetsk non ce ne è nessuno. Nella Repubblica, la gente associa Pushilin agli accordi di Minsk, al tentativo di porre fine ai combattimenti della regione e se c’è un elemento che unisce la popolazione più dell’odio nei confronti dell’Ucraina è il desiderio di continuare a combattere. Il favorito non è un combattente, non indossa mai l’uniforme, è in giacca e cravatta in tutti i manifesti elettorali. Un cambiamento estetico che sembra una dichiarazione di intenti.

 

Nel Donbass le vittime sono state quasi diecimila, più di un milione e mezzo i profughi, se tra gli abitanti delle due repubbliche sopravvive ancora la voglia di combattere nonostante la paura e le difficili condizioni di vita – mancano cibo e acqua potabile in molte zone –, questa volta è Mosca a non voler più combattere. Vladimir Putin potrebbe essere intenzionato a porre fine al conflitto nel Donbass il prima possibile, è una guerra che costa molto, i volontari disposti ad andare a combattere sono sempre di meno, la presenza dei mercenari – gli omini verdi – è sempre più scomoda, e forse potrebbe voler trattare per una vittoria più simbolica che effettiva. Per il Cremlino il Donbass è stato una sconfitta e uscirne porterebbe anche la diminuzione delle sanzioni da parte dell’Unione europea. Queste elezioni, le prime dal 2014, possono aiutare Mosca a porre fine al conflitto, senza rovinare la propria immagine. E’ proprio sull’immagine che ha puntato, almeno a Donetsk, sull’imborghesimento di un candidato senza uniforme. Un politico, un manager e non un combattente. Un uomo non amato, incravattato, al quale addossare la colpa del fallimento delle trattative.

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