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Trump usa le prove del nemico per mostrare la sua innocenza

Prostitute, minacce e nonsense. La guerra interpretativa sui memo di Comey

New York. Oggi tre deputati repubblicani a capo di altrettante commissioni della Camera – giudiziaria, intelligence e di sorveglianza – hanno chiesto e ottenuto dal dipartimento di Giustizia i memo in cui l’ex direttore dell’Fbi, James Comey, ha preso nota degli incontri e delle telefonate con Donald Trump, episodi irrituali e controversi che Comey ha sentito l’esigenza di annotare e condividere con l’ufficio del procuratore generale. Da quelle conversazioni è scaturito il licenziamento ex abrupto di Comey e hanno preso corpo i sospetti di ostruzione alla giustizia. In seno a quegli episodi è nata la decisione di nominare uno special counsel per indagare sulla collusione con la Russia e ciò che ne consegue. Trentanove minuti dopo che i file erano stati trasmessi a Capitol Hill, sono arrivati nelle mani dei giornali e pubblicati. Poco dopo il dipartimento di Giustizia ha autorizzato l’uscita di una versione parzialmente censurata del documento di quindici pagine, e nel giro di qualche minuto la bipartisan macchina dello spin è entrata in azione per arruolare i memo di Comey nei propri ranghi politici. I tre capicommissione Robert Goodlatte, Trey Gowdy e Davin Nunes hanno aperto la danza dell’innocenza di Trump: Comey, hanno scritto, “si è dilungato tanto nel descrivere le scene nella sala da pranzo, nel discutere requisiti di altezza, nel raccontare le molte occasioni in cui si è sentito lusingato e una miriade di altri eventi scollegati, ma non ha mai fatto menzione del fatto più rilevante di tutti, cioè se sia stato o meno ostruito nell’esercizio della giustizia”. Le parole di Comey, finalmente svelate nella loro interezza e non filtrate dalle fake news antitrumpiane, mostrano che non c’è stato alcun tentativo del presidente di ostruire la giustizia: questa è immediatamente diventata la linea offensiva repubblicana.

   

I memo di Comey non aggiungono novità fattuali di rilievo rispetto a quanto si sapeva già, ma aggiungono sfumature, dettagli e note di colore che talvolta si limitano a testimoniare la totale incoerenza e goffaggine di Trump, e dunque dell’amministrazione (scrive che certi dialoghi erano così frammentati e sconnessi che “è modo difficile ordinarli in modo lineare”), talvolta sembrano validare le accuse di autoritarismo (parla di incarcerare i giornalisti per convincerli a rivelare i leaker: “Passano un paio di giorni in carcere, si fanno nuovi amici, e sono pronti a parlare”) e altre volte confondono incredibilmente le acque, facendo saltare qualsiasi interpretazione. Si scopre, ad esempio, che Trump non stimava poi molto Michael Flynn, il consigliere per la Sicurezza nazionale che pure ha chiesto a Comey di risparmiare, persona che “ha seri problemi di giudizio”. Per esemplificare i problemi di giudizio, Trump lamenta che Flynn non gli ha detto tempestivamente che un importante leader aveva chiamato per congratularsi per le elezioni, mancanza che non ha permesso al presidente di richiamare in modo tempestivo. Il nome della controparte è oscurato, ma si capisce facilmente che si tratta di Vladimir Putin, cosa che complica ancora la questione: Flynn, capostipite e fulcro di ogni contatto fra la Russia e Trump, ha umiliato Putin fissando la risposta del presidente sei giorni dopo la chiamata di congratulazioni. L’ossessione ormai nota per la “golden shower” moscovita di cui parlava il dossier di Chris Steele trasecola nella dichiarazione secondo cui Putin, una volta, ha detto a Trump che la Russia “ha alcune delle più belle prostitute nel mondo”. La domanda che salta alle mente più spesso leggendo i memo è “come siete arrivati a parlare di questo?”, non “questa è una prova sufficiente per l’ostruzione alla giustizia?”. Trump è certo che i documenti provino che non c’è né collusione né ostruzione, e ha fatto un tweet su questa falsariga, mentre dall’altra parte il Partito democratico presentava alla procura una denuncia per la cospirazione con il Cremlino.

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