Il presidente cinese Xi Jinping (foto LaPresse)

Il piano cinese che spiega la guerra commerciale di Trump

Eugenio Cau

Pechino ha risposto ai dazi in maniera limitata. Ma la strategia di Washington ha un obiettivo specifico: il programma “China 2025”

Roma. La ritorsione della Cina contro i dazi imposti giovedì dall’Amministrazione americana di Donald Trump è stata limitata. Mentre Washington imponeva 60 miliardi di dollari di tariffe su prodotti cinesi, ieri Pechino ha risposto con appena tre miliardi, imposti su un centinaio di prodotti tra cui la carne di maiale, la frutta, i tubi in metallo, il vino. E’ possibile, come ritengono alcuni analisti, che questa sia soltanto la prima di una serie di ritorsioni cinesi – all’appello dei dazi manca uno di quelli che potrebbe fare più male all’economia americana, quello sulla soia, e questo fa pensare a un nuovo round di punizioni. La risposta moderata di Pechino è figlia della pretesa cinese di voler apparire come vittima dell’insensata furia protezionista trumpiana: imponiamo qualche piccolo dazio, dicono i cinesi, soltanto per non perdere la faccia, ma in realtà speriamo che Trump rinsavisca, vorremmo collaborare e non combattere. Siamo noi e non l’America protezionista i paladini dell’ordine economico globale. Per svelare il probabile bluff, bisogna recuperare la ragione principale per cui l’America trumpiana ha deciso di imporre i dazi contro la Cina. Non che “la Cina sta stuprando l’America” in campo economico, come amava dire Donald Trump durante la campagna elettorale del 2016. L’origine della furia trumpiana ha un nome preciso: “Made in China 2025”.

 

Robert Lighthizer, il rappresentante del commercio degli Stati Uniti e uno dei falchi che dalla Casa Bianca muove le pedine per la guerra di tariffe che verrà, parlando due giorni fa davanti alla Commissione finanza del Senato americano ha detto: “Gli unici dazi che mi importano” sono quelli che colpiscono il progetto “Made in China 2025”. Peter Navarro, consigliere di Trump sul commercio, ha detto più o meno la stessa cosa: con i nostri dazi vogliamo distruggere “Made in China 2025”.

 

Il progetto è tutt’altro che nuovo: è stato annunciato nel 2015 dal premier cinese Li Keqiang come un programma di investimenti tecnologici direttamente ispirato all’“Industria 4.0” presentata dal governo tedesco qualche anno prima. Inizialmente – lo hanno rivelato alcuni retroscena usciti un anno fa – l’allora Amministrazione Obama ignorò la notizia, e soltanto in seguito Washington capì che Pechino riponeva nel progetto le sue speranze e le sue ambizioni di dominio tecnologico e industriale. “China 2025” è diventato così dapprima un oggetto di rapidissimo studio, necessario per recuperare il tempo perduto, e poi un’ossessione per l’Amministrazione successiva, con i falchi Lighthizer, Navarro e Steve Bannon (quest’ultimo finché è durato) pronti a tutto per bloccare il piano.

 

L’obiettivo di “China 2025” è mastodontico: far scaturire attraverso investimenti top-down (investimenti che emanano dallo stato o dagli enti centrali) e attraverso una politica aggressiva la quarta rivoluzione industriale in Cina e trasformare il paese in una potenza tecnologica di primo livello, se non direttamente nella prima potenza tecnologica – ovviamente, il 2025 è il limite di azione temporale del progetto. Il governo cinese ha individuato dieci aree strategiche di intervento necessarie (tra queste: robotica, information technology, industria aerospaziale, discipline biomediche) e ha stanziato enormi fondi (sono difficili da quantificare perché il budget del progetto è diviso tra stato centrale ed enti locali, ma si parla comunque di decine di miliardi di dollari. Per fare un paragone, si pensi che alla fine del 2016 la Germania aveva investito appena 200 milioni di euro nel suo progetto di “Industria 4.0”).

 

Sulla carta non c’è nulla di male in “China 2025”. Dalla Germania agli Stati Uniti all’Italia, tutti i paesi avanzati hanno sviluppato in questi anni un proprio piano per non perdersi la quarta rivoluzione industriale. Il problema è che Pechino, come spesso avviene, ha inserito nel piano una forte connotazione di dominio geopolitico. Un paper del think tank tedesco Merics intitolato “China 2025” spiega che il progetto ha come obiettivo principale “la sostituzione”. Pechino vuole sostituire la leadership delle aziende tecnologiche americane nel mercato domestico, poi intende sostituire la leadership mondiale di queste aziende, e infine sostituire, o quanto meno corrodere, la leadership tecnologica dell’occidente. E come si può leggere nell’articolo in questa pagina, la Cina è pronta a usare metodi quanto meno eterodossi per raggiungere questo stato di primazia. Per chiamare il bluff di Pechino – e per capire perché molti esperti di Cina vedono con interesse la pur caotica politica commerciale trumpiana, che diventa aggressiva dopo anni di appeasement – bisogna studiare “China 2025”.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.