La manifestazione dei nazionalisti polacchi dello scorso 11 novembre a Varsavia (foto LaPresse)

I paesi dell'est custodiscono la Tradizione o coltivano brutte derive autoritarie?

Francesco Maselli

Nei paesi del Gruppo di Visegrad si calpestano i diritti civili e politici.  E la sfida ai princìpi democratici preoccupa Bruxelles

Roma. A Varsavia, l’11 novembre 2017 oltre 60 mila persone hanno partecipato a una “marcia per l’indipendenza” per chiedere una Polonia più bianca, intransigente nei confronti dell’invasione di immigrati di origine araba, rispettosa della tradizione cattolica del paese. Una dimostrazione di forza da parte dei movimenti nazionalisti che non nasce dal nulla e non è isolata. I paesi dell’Europa dell’est, dal Baltico all’Ungheria, formano da tempo un blocco più o meno omogeneo che si oppone alle politiche di Bruxelles e cerca di difendere le proprie prerogative dall’influenza dell’Unione, specialmente in materia di diritti civili e di solidarietà nei confronti degli altri stati. Ma cosa rappresentano questi paesi? Stati che difendono le tradizioni religiose e culturali dalla globalizzazione oppure stati dove, dopo timidi passi in avanti verso la democrazia, l’esperimento liberaldemocratico è fallito? “Ovviamente le cose sono più complicate di così – spiega in una chiacchierata con il Foglio Federico Niglia, storico delle relazioni internazionali alla Luiss – il nazionalismo negli stati dell’est è declinato come fondamentale per la sopravvivenza e il mantenimento di un’identità costruita da un lato in contrasto con il vicino russo, dall’altro all’interno della storia europea. Ma, certo, esiste una carica autoritaria innegabile”.

 

In questi paesi, e in particolare in Polonia, è forte la diffidenza verso le democrazie dell’Europa occidentale, continua Niglia, a lungo ritenute come modello a cui tendere, anche in chiave anti russa, ma spesso giudicate inaffidabili. Esiste, inoltre, un grande punto di divergenza: “Il ruolo della religione. Gli stati dell’est utilizzano la religione come barriera e strumento per affrontare le sfide della modernità, specialmente terrorismo e immigrazione. La fede cristiana è il prisma attraverso il quale si legge la realtà, condizione distante dal nostro modo di ragionare”. Per ragioni di comodità geografica e di convergenza nelle posizioni a livello europeo si ha la tendenza a considerare il gruppo di Visegrad come un blocco monolitico. Eppure la loro storia non è comune: Budapest e Praga si collocano nella Mitteleuropa, nell’impero austroungarico, Varsavia ha un percorso autonomo, molto più vicino all’influenza della Russia zarista e sovietica. “Le differenze geografiche sono profonde, così come quelle religiose – annuisce Niglia – la Polonia è profondamente cattolica, l’Ungheria si richiama al cristianesimo in senso lato, e storicamente sono molto lontane. Ma anche tra Varsavia e i paesi baltici esistono differenze rilevanti: fino a pochi anni fa gli stati baltici erano delle repubbliche socialiste sovietiche, la Polonia una democrazia popolare, uno stato alleato dell’Urss ma non parte di esso. Sembrano differenze minime, non lo sono”. E proprio la Russia è uno dei motivi principali per cui la partecipazione alla Nato non è mai messa in discussione, mentre quella all’Unione europea viene spesso percepita più come un peso che come una risorsa.

 

Ci si chiede se esista un filo rosso che lega l’ascesa dei populismi euroscettici dell’Europa occidentale come il Front national di Marine Le Pen, il Partito delle libertà di Geert Wilders, la Lega Nord di Matteo Salvini e i partiti nazionalisti come Diritto e Giustizia in Polonia o Fidesz in Ungheria. Niglia si mostra in disaccordo: “Quando si parla di ‘estrema destra europea’ e si mette insieme tutti questi movimenti si cade in un errore di interpretazione. Nell’Europa occidentale i movimenti populisti agiscono in un contesto fortemente democratico, contestano le élite ma non sono alieni alle tradizioni politiche dei loro paesi. Nei partiti nazionalisti dell’Europa orientale, invece, esiste una fortissima carica autoritaria. In Polonia e Ungheria in particolare, la loro retorica si salda con le radici non democratiche che stanno emergendo nuovamente in questo periodo”.

  

Ma quindi è fondato l’allarmismo di Bruxelles rispetto ai passi indietro dei paesi orientali sulle regole della democrazia occidentale? “Credo di sì. Questi paesi sono nati come stati autoritari per poi subito passare sotto la dittatura di stampo comunista. La storia ha un peso, è difficile stupirsi che in paesi dove i diritti civili e politici non sono mai stati in primo piano, la risposta alle sfide della modernità non abbia tratti democratici”. Secondo Niglia il binomio sul quale è stato fondato l’allargamento a est della Comunità europea, promessa di crescita economica e dei diritti, ha dimostrato di non funzionare: “La Polonia ha una crescita economica ininterrotta da anni, eppure sta facendo grandi passi indietro dal punto di vista dei diritti. Stessa cosa vale per l’Ungheria. Non è un caso”.

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