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Il "govern" in esilio?

Eugenio Cau

La “fuga” presunta di Puigdemont in Belgio mostra che i secessionisti non hanno un piano B. La crisi di Podemos

Roma. Il primo giorno di lavoro del nuovo presidente della Repubblica catalana, Carles Puigdemont, è iniziato con un lungo viaggio in macchina. L’ex “president”, accompagnato da cinque ministri del suo governo decaduto, ha viaggiato ieri mattina verso Marsiglia, in Francia, mentre tutti lo aspettavano al Palau de la Generalitat di Barcellona, e da lì ha preso un aereo per Bruxelles. Tutti hanno collegato questo viaggio fuori programma alle dichiarazioni fatte sabato da Theo Francken, il ministro dell’Immigrazione belga. Nazionalista fiammingo, vicino da sempre alla causa catalana, Francken aveva detto durante un’intervista televisiva che “i catalani che si sentono politicamente minacciati possono chiedere asilo in Belgio. Questo vale anche per il presidente Puigdemont. E’ legale al 100 per cento”. Domenica il premier Charles Michel aveva smentito il suo ministro, chiedendogli di “non gettare benzina sul fuoco” e dicendo che “l’asilo (ai leader catalani) non è nella nostra agenda”, ma ecco che il viaggio di Puigdemont, ufficialmente per partecipare a “riunioni” con i politici fiamminghi, fa già parlare i giornali spagnoli di “fuga” e di un “governo in esilio”, voci alimentate anche dal fatto che Puidgemont ha assunto Paul Bekaert, celebre avvocato dell’Eta a Bruxelles, noto per aver sottratto alla giustizia spagnola la terrorista basca Natividad Jaureguí.

 

La “fuga” di Puigdemont, sempre che di questo si tratti, è dalla giustizia spagnola. Mentre l’ex president era in viaggio, ieri il procuratore generale di Madrid chiedeva l’incriminazione di tutto il governo decaduto catalano e delle alte cariche del Parlament di Barcellona per ribellione, sedizione e malversazione di fondi pubblici, ordinando agli accusati di presentarsi davanti al tribunale di competenza (la Audiencia nacional per i membri del governo deposto, il Tribunale supremo per i membri del Parlament). Così, mentre tutti seguivano le avventure brussellesi di Puigdemont, a Barcellona iniziava a farsi strada una realtà amara per i tifosi dell’indipendenza: a meno di sorprese, i secessionisti non hanno un vero piano per salvare la neonata repubblica e per resistere all’articolo 155 della Costituzione spagnola. Ieri gli ex ministri del governo sono entrati nei loro uffici scortati dai Mossos, ma solo per    portare via le loro cose. Josep Rull, ex ministro del Territorio, di prima mattina aveva twittato una sua foto “al lavoro” in ufficio, ma poco dopo è stato costretto ad andarsene. Al Parlament, la presidente Carme Forcadell (tra gli accusati dal procuratore) ha riconosciuto che l’istituzione era stata sciolta e ha annullato le riunioni dei prossimi giorni. Nel frattempo i due principali partiti indipendentisti, PDeCat (il partito di Puigdemont) ed Erc (il partito dell’ex vicepresidente Oriol Junqueras) hanno annunciato che parteciperanno alle elezioni del 21 dicembre, quelle indette dal premier spagnolo Mariano Rajoy: notevole contraddizione per due forze politiche che hanno votato per la repubblica.

 

Il 155 di Pablo Iglesias

Le elezioni di dicembre si stanno trasformando in un disastro anche per Podemos, che tra tutti i partiti nazionali per ora appare il più devastato dalla questione catalana. I guai per Pablo Iglesias sono iniziati durante la votazione di venerdì, quando gli 11 deputati di Catalunya Sí que es Pot, la coalizione di Podemos al Parlament, hanno partecipato al voto sull’indipendenza, forse in disaccordo con la dirigenza nazionale. Degli undici, otto hanno mostrato alle telecamere il loro voto negativo, ma tre di loro, tra cui il leader di Podem, la Podemos catalana, Albano Dante Fachin, hanno votato in maniera segreta, alimentando i sospetti di un voto positivo. Pablo Iglesias, il cui motto è un ambiguissimo “né con l’indipendenza né con il 155”, aveva dato ordine ai suoi di non appoggiare i separatisti, e davanti alla disobbedienza ha convocato una consultazione tra i militanti per destituire Fachin – in un certo senso, ha fatto un 155 interno, imponendo il volere di Madrid sulla parte catalana del partito. Quando poi una delle correnti nazionali di Podemos, quella degli “anticapitalisti”, ha riconosciuto la Repubblica catalana, Iglesias ha cacciato via pure loro. Nel frattempo Ada Colau, sindaca di Barcellona, vicinissima a Podemos, vive drammi simili: contraria all’indipendenza ma ancor più contraria a Rajoy, saltella da una posizione all’altra mentre i suoi consensi si sgonfiano, dimostrando che la crisi catalana è anche una crisi della sinistra che muore di troppa intransigenza.

  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.