Il comitato permanente presentato a Pechino. Foto LaPresse/Reuters

Ora che Xi ha il potere supremo in Cina, leggete il suo ideologo

Eugenio Cau

Wang Huning è stato nominato nel Comitato permanente e predica la necessità di un “neo autoritarismo”. Parla il prof. Sisci

Roma. La novità politica più importante dell’anno, vale a dire la presentazione al mondo del gruppo di sette uomini che guiderà la Cina fino al 2022, il Comitato permanente del Partito comunista cinese, ha paradossalmente perso valore poco prima dell’annuncio. Oggi, verso mezzogiorno ora di Pechino, intorno al presidente e segretario generale Xi Jinping si sono radunate le nuove semidivinità della politica cinese, dopo che gli osservatori avevano trascorso mesi a speculare sulla possibile lista dei nomi. Eccola. Oltre a Xi ci sono Li Keqiang, riconfermato premier, Li Zhanshu, Wang Yang, Wang Huning (sarà il nuovo capo dell’ideologia del Partito), Zhao Leji (sarà il nuovo zar anticorruzione) e Han Zheng. Ma quando, dopo molta attesa, i nuovi leader sono infine apparsi al pubblico, la loro importanza era già stata ridimensionata. Il giorno prima, alla chiusura del Congresso del Partito comunista, Xi aveva inserito in maniera eponima il suo “pensiero”, la sua ideologia, nello statuto del Partito, diventando a tutti gli effetti una cosa sola con esso: da oggi, chiunque si opponga alla linea di Xi Jinping si oppone direttamente al Partito, e pochi crimini sono peggiori di questo nella Cina comunista. Con un potere così, ogni speculazione sugli equilibri del comitato permanente e sulla presenza nel gruppo di possibili eredi è diventata quasi superflua. Secondo gli osservatori, nel gruppo dei sette ci sono rappresentanti delle fazioni che fanno capo all’ex presidente Hu Jintao (tale per esempio è considerato Wang Yang) e al suo predecessore Jiang Zemin (Han Zheng è considerato vicino alla fazione di Shanghai), ma in realtà “possiamo dire che tutti gli uomini promossi sono uomini di Xi, che risponderanno esclusivamente a lui, rompendo la tradizione di governo di un primus inter pares”, dice al Foglio Francesco Sisci, sinologo e professore alla Università Renmin di Pechino. Xi inoltre ha riempito di fedelissimi e alleati il Politburo, il più ampio consesso di 25 dirigenti di cui il Comitato permanente è una parte. Secondo il think tank pechinese Trivium, almeno 11 membri, in base a una stima prudente, sono fedeli a Xi, e molti altri sono d’accordo con la sua linea politica.

   

“Il Congresso del Partito rompe definitivamente il sistema di governo retto da una leadership collettiva che è stato vigente in Cina negli ultimi quarant’anni”, dice Sisci. “Xi fin dagli ultimi cinque anni ha inaugurato un sistema più presidenziale, ed è anche per questo che nel nuovo Comitato permanente non c’è nessun possibile delfino che possa prendere il suo posto”. I nuovi leader cinesi, infatti, hanno tutti più di sessant’anni e saranno troppo vecchi quando, nel 2022, Xi in teoria dovrebbe ritirarsi. “Ma ciò non significa necessariamente che Xi voglia allungare la sua presidenza oltre il termine. Potrebbe farlo, certo, ma l’unica cosa di cui siamo sicuri adesso è che il prossimo leader, se ci sarà, non sarà scelto secondo i vecchi schemi”.

  

Nella nuova leadership, un personaggio spicca più di altri e forse può aiutarci a definire il nuovo corso cinese: Wang Huning. Membro di nuova nomina del Comitato permanente, nuovo capo dell’ideologia del Partito, Wang non è un politico ma uno studioso, capo del principale think tank del governo, l’Ufficio centrale per la ricerca politica. Dopo una lunga carriera accademica tra gli anni Ottanta e Novanta, Wang è stato chiamato a Pechino nel 1995 da Jiang Zemin, e da allora è stato la penna del Partito comunista, autore delle grandi teorie politiche degli ultimi trent’anni, compreso il “sogno cinese” di Xi Jinping. Ma prima ancora, nei suoi anni di accademia, Wang è stato uno dei principali sostenitori e divulgatori della teoria politica del “neo autoritarismo”, una dottrina che ha cominciato a circolare negli ambienti della leadership cinese a partire dalla fine degli anni Ottanta e che prevede che “al fine di superare le opposizioni interne e le resistenze delle periferie, per poter fare le riforme è necessario concentrare tutto il potere nelle mani di un solo uomo”, spiega il professor Sisci.

   

Ricorda qualcosa? Xi Jinping, il “presidente di tutto”, sembra aver seguito questa teoria alla lettera negli ultimi cinque anni, e pare intenzionato a continuare nel prossimo futuro: se c’è un tratto politico che è sicuramente attribuibile alla sua presidenza, è la concentrazione del potere.

   

Neo autoritarismo e democrazia

Il rapporto tra neo autoritarismo e democrazia è complesso. La dottrina, “che è l’adattamento cinese di teorie europee risalenti al Diciassettesimo secolo e alla nascita del capitalismo”, spiega Sisci, prevede che “una volta superati gli ostacoli il potere sia poi redistribuito, anche in maniera più liberale”, ma è ovvio: nessuno garantisce che ciò sia fatto. Soprattutto, nei suoi scritti del periodo accademico Wang sembra disprezzare la democrazia liberale occidentale, e propendere per un passaggio dal neo autoritarismo a un autoritarismo classico. “Ma se la concentrazione del potere non prelude a una sua redistribuzione, prima o poi il potere scoppia tra le mani di chi lo detiene”, dice Sisci, che però aggiunge: “La leadership cinese conosce la storia, sa che il potere andrà redistribuito. Il problema è se ci sarà il tempo per farlo. Le pressioni esterne nei confronti della Cina rischiano di saldarsi con il malcontento dell’opposizione interna, e questo può essere un problema per Xi”.

  

E l’Italia? “Sono rimasto esterrefatto che il più grande evento politico dell’anno sia stato seguito in Italia con distrazione: tutti impegnati a guardare le elezioni in Sicilia, come se quello che deciderà l’uomo più potente del mondo (lo dice l’Economist) non avesse effetti anche su di noi. Il mondo sta cambiando, e noi continuiamo a tergiversare. Per fortuna siamo ben attrezzati davanti ai cambiamenti. Dal punto di vista delle geografia, l’Italia è un ponte perfetto tra Europa, Africa e Asia. Ma questo non basta: per resistere all’ascesa dei megastati come la Cina, bisogna cominciare a ragionare a livello europeo. Solo così potremo continuare a contare”.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.