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In Kurdistan è il tempo delle vendette, fra tradimenti e rappresaglie

Adriano Sofri

Nei pressi di Kirkuk spunta il ritratto dell'ayatollah Khamenei

A Kirkuk molti curdi (e gli arabi sunniti, i più spaventati) hanno ricominciato ieri a fare fagotto. In città spadroneggiano i miliziani Hashd al Shaabi, facendo vendetta, nel più fortunato dei casi ingiuriando i curdi – “Eravate i vincitori di Daesh, promettevate di resistere fino alla morte: siete scappati come topi…” – nel peggiore conducendo una “indagine” sbrigativa sui loro precedenti, le affiliazioni di partito, le dichiarazioni… Non c’è curdo che non abbia proclamato i propri sentimenti e propositi su Facebook ogni giorno di questi anni, senza alcuna remora. Quelli che temono le rappresaglie per sé e i propri cari sanno anche che partire significa che un’ora dopo la loro casa sarà occupata e le loro cose violate. Succede anche – perché tutto succede in momenti come questi – che curdi del Puk guidino i nuovi padroni alla caccia di curdi del Pdk. E’ successo ieri del resto che la concordia oltraggiosa fra i nuovi arrivati e gli Asaish, la sicurezza curda del Puk rientrata in città, si sia già incrinata di fronte all’ordine di spogliarsi di ogni autorità salvo arruolarsi dentro le forze di polizia regolari irachene. “L’accordo non era questo”, protestano i curdi, così confessando l’accordo che c’era.

 

Ieri pomeriggio hanno garantito di aver ottenuto da Abadi il ritiro delle milizie sciite da Kirkuk. A Suleymanyah, dove si è diretta una parte dei nuovi fuggiaschi – migliaia, secondo lo scontato allarme dell’Onu; l’altra parte è andata a Erbil – i curdi di Tuz Khurmathu hanno manifestato ieri davanti alla sede del Puk. Avevano avuto dei morti fin dalla notte di domenica, e le case saccheggiate o sequestrate dagli Ashd al Shaabi. Tradimento, è la parola che da allora corre dovunque, sospinta dai goffi sforzi di addebitarsela reciprocamente. L’Ufficio politico del Puk era convocato ieri pomeriggio a Suleymanyah, in assenza deliberata del suo membro anziano più eminente, Ali Rasul Kosrat. Il quale ha reso pubblica la sua durissima denuncia di “persone immature” – in cui tutti hanno letto i nomi dei “giovani” Talabani – che hanno voluto “entrare nella storia dalla porta della vergogna” e hanno venduto gli ideali del partito. “Una nuova Anfal”, l’ha chiamata Kosrat, col nome infame della campagna genocida di Saddam Hussein e Ali “il Chimico” culminata nel 1988, che costò ai curdi decine di migliaia di vite. “La nazione curda ha fronteggiato il più barbaro gruppo terrorista (l’Isis) per tre anni e ha fermato i suoi piani ripugnanti in nome di tutta l’umanità amante della pace”. Il vecchio leone ferito ha denunciato una comunità internazionale che ha abbandonato alla brutalità i curdi. “La nostra nazione non ha altri amici che la montagna”: e lui sa di che cosa parla. Kosrat incita a una resistenza che ha superato prove anche peggiori, ma il suo tono è quello di un veterano fiducioso appena ieri che la sua generazione avrebbe lasciato in eredità un primo Kurdistan indipendente, e ora rinvia alle generazioni che verranno la rinascita da una vergogna peggiore delle sconfitte.

 

Le forze di Kosrat, le più decise a osservare l’impegno a battersi per Kirkuk, avevano ripiegato dopo aver perso alcuni dei loro uomini, compresi due peshmerga padre e figlio, quando era stato chiaro che non ci sarebbe stata resistenza da parte dei loro commilitoni, specialmente il grosso di quella “Forza 70” dotata degli armamenti più pesanti. Nomi e facce delle decine di morti tra notte di domenica e lunedì sono pubblicati solo disordinatamente sui social. Ieri si è saputo che martedì il tranquillo passaggio di consegne fra iracheni e curdi alla diga di Mosul (in cui vivono e lavorano circa 700 italiani militari e civili) era stato preceduto da un attacco di Hashd al Shaabi, che ufficialmente non avrebbero dovuto prendervi parte. I peshmerga l’hanno respinto perdendo un uomo e uccidendone sette. Fra questi un pezzo grosso della milizia sciita, Ahmed Obeidi, braccio destro del capo della loro intelligenza, Abu Yasir. In un contesto di menzogne e viltà spicca l’impudenza dei portavoce americani, che per giunta parlano in nome della “coalizione” (73 componenti!): ieri, ribadendo che l’offensiva iracheno-iraniana era stata “una ordinata operazione consensuale”, hanno dichiarato di non avere alcuna prova delle voci sulla presenza di Ashd al Shaabi e tanto meno di iraniani. Non c’erano, ma sono riusciti ad ammazzare e farsi ammazzare, e ora diffondono propri video smargiassi girati nel governatorato di Kirkuk col ritratto di Khamenei.

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