Theresa May (foto LaPresse)

La vittoria di Pirro di May. Che ora rischia di perdere tutto

Stefano Basilico

I conservatori non raggiungono la maggioranza assoluta. Il premier assicura: “Garantiremo stabilità”. Ma i suoi rivali, Boris Johnson in testa, sono già pronti a prendere il suo posto a Downing Street 

Theresa May ha perso la sua scommessa. Ha convocato il paese alle urne, a sorpresa, per ottenere una maggioranza forte con cui cominciare tra dieci giorni le trattative sulla Brexit con Bruxelles. Lo ha fatto quando i sondaggi le davano un vantaggio abissale. Non solo non ha incrementato il numero dei deputati, ma rispetto alle precedenti consultazioni del 2015 ne ha persi. Una vittoria di Pirro con cui la leader tory perde ogni traccia di credibilità sopravvissuta ad una campagna elettorale prostrante. May voleva dimostrarsi “forte e stabile” come da mantra ripetuto alla nausea. È risultata agli occhi dell’elettorato debole, priva di carisma e di leadership. Non ha raggiunto la maggioranza assoluta che sperava e che le avrebbe permesso di creare un governo con libertà di azione. I conservatori hanno vinto 315 seggi (lo spoglio è ancora in corso), i laburisti 261, l’SNP 35 e i Libdem 12, con i partiti minori a spartirsi il resto.

 

Jeremy Corbyn si è mostrato sorridente. Quando venne eletto leader nel 2015 con un plebiscito degli iscritti e l’ostilità dei deputati, il suo indice di gradimento era esiguo. È riuscito a guadagnarsi la fiducia dell’elettorato con una campagna elettorale spettacolare, vecchio stampo, riempiendo le piazze. Sorridente nella sua fortezza di Islington, ha chiesto a May di dimettersi e ha detto che il voto è stata una dichiarazione di intenti contro l’austerità. Momentum, il gruppo di ultra-sinistra che lo ha appoggiato fin dalla corsa alla leadership, è stato determinante. Tutto il gotha del corbynismo, da John McDonnell, cancelliere ombra dello scacchiere, al vice Tom Watson, alla responsabile della difesa Emily Thornberry, è stato riconfermato dagli elettori. Corbyn è riuscito a rubare seggi ai tories, a dimostrarsi rassicurante in seguito agli attentati terroristici nonostante i temi securitari non fossero il suo forte e ha sfondato in Scozia ridimensionando l’SNP. I separatisti sono i grandi sconfitti dopo il successo epocale del 2015 e hanno perso nomi illustri come Alex Salmond, ex primo ministro a Edimburgo, e Angus Robertson, capogruppo a Westminster.

 

I nazionalisti scozzesi, come previsto, hanno ceduto numerosi seggi anche ai Conservatori, che sorridono solo sopra il vallo di Adriano grazie alla loro guida atipica, Ruth Davidson, working class, lesbica e riservista. In Irlanda del Nord gli unionisti del DUP se la sono cavata e potrebbero essere una stampella imprescindibile per una maggioranza tory molto risicata. I Libdem che hanno incentrato la propria campagna sull’europeismo hanno guadagnato qualche seggio, ma hanno perso Nick Clegg, già leader.

 

Il prossimo primo ministro non avrà alcuna “strong hand” con cui negoziare a Bruxelles, a meno di non tornare alle urne a giorni. May, che pure nella roccaforte di Maidenhead ha incrementato (di poco) i propri voti, ha dichiarato che “al paese in questo momento serve stabilità”. Che possa essere lei a garantirla è tutto da dimostrare, si prospetta una mattinata dai lunghi coltelli. Se non dovesse essere riconfermata a Downing Street sarebbe il primo ministro con il mandato più breve (solo 330 giorni) dal 1763, quando il conte di Bute governò per undici mesi. I suoi rivali sono pronti a subentrare, in particolare Boris Johnson, con cui scorre un odio che nemmeno i fratelli Gallagher. Durante il suo incarico da ministro degli esteri, May lo ha umiliato pubblicamente numerose volte e ora il leader di Vote Leave potrebbe gustare la sua vendetta. Se la sta godendo anche un altro membro del Bullingdon Club, George Osborne, ex cancelliere dello scacchiere con Cameron, defenestrato dalla May e che ora lancia invettive dalla direzione del London Evening Standard.

 

La retorica sulla Brexit e il conservatorismo compassionevole del premier uscente sono stati fagocitati dall’inadeguatezza di un manifesto raffazzonato, che ha necessitato di correzioni in corso d’opera. Il suo autore, Ben Gummer, ha perso il suo seggio di Ipswich, così come ha dovuto attendere il riconteggio Amber Rudd, ministro degli interni e pretoriana mandata al macello nel dibattito televisivo, che l’ha spuntata per soli 346 voti ad Hastings.

 

Al quartier generale dei conservatori c’è rabbia e si esige che salti qualche testa: quelle di Fiona Hill e Nick Timothy, i collaboratori più stretti di May, ma anche quella della stessa leader. Anna Soubry è stata la prima deputata dei tories a chiedere pubblicamente le sue dimissioni, ma come riferisce Laura Kuennsberg di BBC, tra i ministri girano messaggini con una vecchia citazione di William Hague, ex leader tory: “il partito conservatore è una monarchia assoluta regolata dal regicidio, situazione in cui siamo attualmente”.

 

Sebbene sia presto per fare analisi accurate, si possono fare alcune rilevazioni: innanzitutto la distribuzione geografica del voto è tornata quella classica, con i tories forti al sud e i laburisti che hanno mantenuto il controllo delle roccaforti del nord. Le novità sono una Londra sempre più rossa – forse uno strascico del referendum sull’UE – e una Scozia che è terreno di conquista. Sembrerebbe essere tornato anche un bipolarismo muscolare, con destra e sinistra a giocarsi la partita, senza grandi intromissioni dai partiti minori. Determinante parrebbe anche il “voto dei giovani”. Come sottolinea Will Straw, fondatore del blog socialista “Left foot forward”, i laburisti hanno strappato ai conservatori tre circoscrizioni nella top 20 per il numero di giovani: Canterbury (tory dal 1879), Portsmouth South e Plymouth. Corbyn può esultare, perché ha fatto crescere il Labour sfiorando un’impresa impossibile, ma non ha vinto. Possono sorridere in pochi all’albore di questa notte elettorale. Dall’altra parte della manica echeggiano fragorose risate.