Un poliziotto davanti ad un seggio in occasione delle elezioni in Gran Bretagna (foto LaPresse)

Quanto è piccolo e solo il Regno Unito che esce dalle urne

Paola Peduzzi

Londra con la Brexit, l’America con Trump, gli anglosassoni soffrono in economia e divorano la loro tradizione liberale. E chiusi nell’angolo iniziano ad augurarsi che nessuno smetta di sentire la loro mancanza

Milano. Gli inglesi appaiono più piccoli, più tentennanti, più nervosi, così come gli americani, a caccia di un punto d’equilibrio che si sposta sempre un pochino più in là, e diventa irraggiungibile. C’è chi guarda con un ghigno da vendetta infine consumata il rimpicciolimento anglosassone, da sempre questi vogliono fare i saputelli e imporci le loro idee e ora sono nell’angolo, giustizia storico-geopolitica è fatta, ma il godimento è passeggero, non è nemmeno giulivo: fare i conti senza gli inglesi e senza gli americani non è facile, e non è bello.

 

 

Il Regno Unito domani si sveglierà dopo la terza tornata elettorale in due anni, affaticato da questo continuo interrogarsi, appesantito dall’assenza di risposte rassicuranti, consapevole che ora che qualche equilibrio politico è stato risintonizzato si va e si andrà comunque verso la Brexit, lo slancio del rimpianto e di una offerta politica alternativa è evaporato, il cammino del divorzio è segnato. Ci sono sfumature diverse allo studio, si può litigare fino alla rottura o adattarsi ai compromessi, ma il processo di isolamento è al momento irreversibile. Lo sapevamo un anno fa, quando il popolo inglese ha scelto di allontanarsi dall’Unione europea, e lo sappiamo ancor più oggi, pure se molti contano ancora su una modalità morbida – il Wall Street Journal scrive che alcuni investitori hanno puntato su Jeremy Corbyn, laburista anti mercato, perché garante, almeno sulla carta, di questa morbidezza.

 

La Brexit e l’elezione di Trump hanno sancito la baldanza del movimento antisistema, con la sua insofferenza incontenibile e il desiderio di urlare forte, molto forte: bisogna cambiare. I pilastri di un nuovo mondo erano stati piantati, e sembravano solidi, o comunque ben più solidi delle rovine dei perdenti. È tutto diverso, tutto da rifare, dicevano i commentatori, senza fornire ulteriori dettagli, ché nei funerali i dettagli non sono quasi mai rilevanti, o sono tutti uguali. L’Europa e l’ordine liberale non presentavano gli strumenti, non mostravano la forza per rigenerarsi. E ancora oggi che il guizzo orgoglioso di vita dell’Europa si vede nitido, si continua a temere che sia soltanto un bagliore, e poi chissà se la luce arriverà davvero. Ma se sulla potenza dell’Europa che prende in mano il proprio destino (copyright merkeliano) ancora si discute e si discuterà, il rimpicciolimento del mondo anglosassone è un dato assimilato: “Il viaggio inglorioso verso l’isolazionismo”, l’ha definito il giornalista-saggista Edward Luce, raccontando la genesi sciagurata della Brexit e sottintendendo che nell’angolo degli isolati il Regno Unito in realtà non è solo, si è trovato affianco gli Stati Uniti di Trump (e quanto stanno scomodi tutti e due lì). L’economia continua a cigolare: oggi Eurostat ha pubblicato una revisione al rialzo della crescita del pil nell’Eurozona e nell’Ue a 28, ma il Regno Unito ha registrato la crescita più bassa di tutti (Simon Nixon, commentatore di fatti europei, ha tuittato: gran risultato per l’Ue, considerato che è “ammanettata al cadavere inglese”). Per l’America la tendenza è la stessa: il Financial Times ha raccontato come e perché il celebre “bounce” trumpiano che il presidente ha più volte festeggiato con i suoi punti esclamativi sia finito.

 

Non c’è soltanto la questione economica, in continua evoluzione e per sua natura un po’ capricciosa: la mutazione è più profonda. L’euroscetticismo britannico è un tratto costitutivo del Regno Unito, ha scandito la sua storia politica per decenni, facendo cadere primi ministri e rovinando traiettorie politiche che parevano promettenti: anzi, se proprio si vuole guardare da vicino l’Inghilterra, la Brexit ha messo fine all’arrembaggio politico degli euroscettici. Hanno vinto, ora tocca a loro. Il problema semmai è che inseguendo questo sogno di sovranità, il “first” come legge inappellabile, il mondo anglosassone ha perduto il suo centro, la sua ispirazione liberale, la sua moderazione. L’Economist (foto sotto) ha messo in copertina questa trasformazione – le lacrime non si possono impaginare, ma quel numero del magazine inglese piangeva – dando l’endorsement elettorale ai liberaldemocratici, che corrono da tempo sul filo dell’irrilevanza. Nella corsa all’interesse nazionale si è finito per divorare in un colpo solo tradizioni e ispirazioni: il modello liberale e globalizzatore anglosassone che è stato per decenni mainstream è rimasto appannaggio di un partito, quello dei Lib-Dem, che mainstream non lo è mai stato. Il centro moderato è schiacciato da estremismi di varia natura e origine, e allargarlo ora è un’impresa politica che nella sfera anglosassone nessuno pare disposto a compiere.

  

 

Per quanto improbabile poteva sembrare invece il resto del mondo occidentale s’è messo in testa che un modo per compiere quest’impresa ci sia, e che possa addirittura essere un successo. Nessuno osava immaginare che lo slancio distruttivo contro una formula liberale ed europeista consunta dal tempo e dalle contraddizioni avrebbe sortito un effetto contrario e virtuoso: l’eredità anglosassone è piombata sugli altri, che per una volta hanno deciso di non farsi tramortire. Quando la cancelliera tedesca dice che non si può fare affidamento sugli inglesi della Brexit e sugli americani in balìa di Trump non sta spezzando alleanze storiche, non sta rimangiandosi il suo atlantismo (basta leggere soltanto una delle biografie della Merkel per saperlo), sta semplicemente prendendo le misure dell’isolazionismo venato di illiberalismo cui si sono affidati due partner storici, e sta dicendo: loro hanno scelto di stare nell’angolo, credono di essere in grado di sopravvivere bene anche lì, ma noi no, no lì moriamo. E dal loro angolo inglesi e americani, che pensavano ancora una volta di essere i portatori di un nuovo ordine, di un nuovo mondo, ora iniziano ad augurarsi che qualcuno continui a sentire la loro mancanza.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi