La guerra Iran-America diventa molto reale in un angolo sperduto della Siria

Daniele Raineri

Raid aerei del Pentagono contro una milizia filo Iran troppo vicina alle forze speciali americane che danno la caccia all’Isis

[AGGIORNAMENTO DELL'8 GIUGNO 2017] Ryan Dillon, ufficiale americano di base a Baghdad, ha detto oggi ai media che un drone delle forze assadiste ha attaccato una base nel sud della Siria, dove sono di stanza le forze siriane sostenute dagli Stati Uniti. A Tanf, è questo il nome dell'area attaccata, è attivo anche un gruppo di militari americani che sostiene i ribelli siriani che combattono contro lo Stato islamico. Nessuno è rimasto ferito nell'attacco e il drone è stato abbattuto, ma è la prima volta, come ha spiegato Dillon, che le forze filogovernative di Damasco attaccano la base di Tanf, collocata al di fuori dalle zone di conflitto e non lontana dal confine con la Giordania e l'Iraq.

 


 

Roma. E dire che le forze assadiste in Siria sono vincolate dal principio militare della coperta troppo corta, quindi non possono impegnare i nemici su tutti i fronti perché non hanno forze bastanti, pur considerando la presenza degli alleati iraniani, iracheni, ceceni, libanesi, pachistani e afghani. Quindi se si sbilanciano troppo da una parte, sono costretti a scoprirsi dall’altra. Eppure, in questi giorni hanno preso di mira il valico di al Tanf, al confine con l’Iraq. Si tratta di un sito che prima della guerra era insignificante, un posto di frontiera in mezzo al deserto orientale nella zona più depressa del paese. Ma oggi ospita la base di un gruppo di ribelli anti Assad che si fa chiamare Maghawir al Thawra, i commandos della rivoluzione, e che in realtà non ha mai sparato un colpo contro gli assadisti, perché è stato creato dagli americani per dare la caccia allo Stato islamico, che nella zona è presentissimo, perché attraversa di continuo il confine fra Siria e Iraq. Non soltanto ospita i ribelli, ma anche forze speciali americane che sono lì per addestrarli e per aiutarli nella lotta allo Stato islamico. Logico che diventassero il bersaglio ghiotto delle forze filoiraniane e assadiste, che al contrario di quelle russe non si sentono legate dagli accordi di cosiddetta deconfliction (ovvero quegli accordi per cui militari russi e americani in Siria fanno finta di ignorarsi). Hanno già provato ad avvicinarsi una volta il mese scorso, fino a costringere gli aerei americani a intervenire e a bombardare un convoglio: è stata la seconda volta del Pentagono di Trump contro i miliziani del governo siriano – o comunque che stanno dalla parte del governo siriano, anche se sono stranieri – dopo la cinquantina di missili caduti su una base assadista il 7 aprile, come punizione per un massacro di civili fatto con armi chimiche vicino Idlib. Ieri c’è stato il terzo raid aereo, di nuovo nella zona di al Tanf e di nuovo per dissuadere le forze iraniano-assadiste dall’attaccare la base. Nei giorni precedenti i jet avevano sganciato sui convogli armati in avvicinamento una pioggia innocua di volantini in arabo per spiegare che dovevano fare marcia indietro e uscire dalla zona di deconfliction. Ma quelli hanno ignorato i volantini e gli americani hanno usato le bombe. E’ chiaro che da una parte e dall’altra non c’è volontà di cedere il territorio all’altro: il Pentagono non vuole essere trattato come la parte perdente, gli assadisti sono in cerca del casus belli imbarazzante: sarebbe quasi uno scontro diretto tra Amministrazione Trump e Iran, e quest’Amministrazione non si è dimostrata in grado di navigare crisi geopolitiche con serenità. Eppure gli assadisti avrebbero molti altri punti in cui combattere. Per esempio la città di Deir Ezzor, piena di civili e assediata dallo Stato islamico: è l’unico punto della Siria dove l’Isis di fatto avanza e rosicchia ogni giorno nuove posizioni, ci vorrebbe un intervento d’emergenza con rinforzi freschi, non l’insistenza su al Tanf. Un altro esempio: è appena cominciata la battaglia per riprendere Raqqa, ex capitale di fatto dello Stato islamico, ma governo siriano e milizie alleate non muoveranno un dito. Il corso degli eventi sembra invece seguire un disegno maligno: aprire situazioni di crisi, in modo da complicare le cose e creare un contesto in cui il disimpegno sembra la sola soluzione praticabile.

 

Ieri il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha detto che considera i raid aerei americani un’aggressione contro uno stato sovrano. Il Pentagono ha detto che che l’intervento dei jet è stato necessario per proteggere i partner locali ben dentro una zona di deconfliction, ma il ministro russo ha finto di non conoscere il termine “deconfliction”: qualsiasi arrangiamento deciso senza il consenso del governo di Damasco è da considerarsi illegittimo.

 

Gli americani sono a corto di opzioni. Se abbandonano i loro alleati locali, è uno smacco cocente. Se non lo fanno, rischiano un’escalation di guerra in una zona dove non ne hanno bisogno. Dopo essere stati alla testa delle campagne anti Stato islamico, a Mosul e a Raqqa, entrambe non ancora concluse ma a buon punto, c’è la possibilità che gli americani siano buttati fuori senza troppi complimenti.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)