Un poliziotto iraniano all'esterno del Parlamento dopo l'attentato di stamattina (foto LaPresse)

No, l'attentato dell'Isis a Teheran non è “un attacco saudita contro l'Iran”

Daniele Raineri

Molti osservatori hanno subito puntato il dito verso il contesto internazionale, alla contrapposizione tra Riad e Teheran. Ma non è il caso dell’attacco di mercoledì

Roma. L’effetto calcolato è arrivato in modo puntuale: le Guardie rivoluzionarie dell’Iran hanno accusato l’Arabia Saudita per il doppio attentato di mercoledì a Teheran rivendicato dallo Stato islamico. Un gruppo di terroristi in mattinata aveva attaccato il mausoleo dell’ayatollah Khomeini, simbolo del clero religioso, e il Parlamento iraniano, simbolo della politica terrena, che assieme formano il sistema ibrido di potere che fa andare avanti l’Iran. Il gruppo di fuoco – in tutto cinque, alcuni travestiti da donne per passare i controlli – ha ucciso dodici persone, senza riuscire ad arrivare all’interno del Parlamento ma soltanto in un’area aperta alle visite dei cittadini e da lì ha spedito un video di venticinque secondi girato con un telefonino alla cosiddetta agenzia Amaq, che è uno dei canali d’informazione dello Stato islamico. Amaq ha subito ritrasmesso il video quasi in diretta su internet – e questo vuol dire che c’era un contatto molto stretto tra i terroristi e lo Stato islamico (nel caso degli attentati in occidente questo legame è di solito più difficile da dimostrare).

 

 

Molti osservatori hanno subito cominciato il gioco della colpa: Ah! Se l’Arabia Saudita detesta l’Iran e lo Stato islamico attacca l’Iran, allora l’Arabia Saudita dev’essere per forza il mandante. Puntano il dito verso il contesto internazionale, che vede una contrapposizione molto pericolosa tra l’Arabia Saudita e i suoi alleati sunniti nel Golfo da una parte e l’Iran sciita e alcuni alleati (la Siria, il gruppo armato Hezbollah, gli Houthi in Yemen, il governo siriano e la Russia) dall’altra. I due fronti si contendono l’egemonia regionale e spesso finanziano e armano gruppi di guerriglieri (ma non l’Isis) per farsi la guerra. Lunedì la situazione si è aggravata ancora di più perché il fronte sunnita ha espulso per punizione il Qatar, considerato troppo soft con l’Iran. Tuttavia, non è il caso dell’attacco di mercoledì. In questo attacco l’Arabia Saudita non c’entra (fino a prova contraria, ma dev’essere una prova forte non una chiacchiera da suq), perché lo Stato islamico è un gruppo che è capacissimo di fare danni spaventosi nella regione da solo e senza aiuti esterni. Lo Stato islamico odia l’Iran, perché è la nazione che guida gli sciiti – il fondatore dello Stato islamico Abu Mussab al Zarqawi considerava gli sciiti “degli scorpioni velenosi, molto più pericolosi degli americani” e anche oggi la visione sull’Iran non è cambiata: è una nazione di eretici pericolosi che ha tradito l’islam. E infatti non c’è davvero un video dello Stato islamico che non citi gli sciiti come i rafidi, in arabo “i rinnegati”, e gli iraniani come i safavidi, quindi con il nome della dinastia persiana che faceva la guerra ai sunniti.

 

 

Più che il contesto internazionale, vale la pena ricordare due discorsi del portavoce dello Stato islamico (Abu Mohammed al Adnani). Uno è del luglio 2011, quando le cose per il gruppo andavano molto male: “Credete che siamo finiti? Davvero pensavate che ce ne saremmo andati? Grazie a Dio, noi siamo quelli che rimarranno!”. Guarda caso, sono proprio le parole che uno dei terroristi dice nel breve video girato per Amaq dentro l’edificio del Parlamento iraniano. Il significato è chiaro se si pensa che in questi giorni comincia l’offensiva curdo-araba per prendere Raqqa e il finale è scontato: lo Stato islamico perderà. Quindi è il momento di bruciare cinque terroristi in un attacco che apparirà sui notiziari di tutto il mondo. Il secondo discorso è del maggio 2014 ed era intitolato con sarcasmo: “Chiedo scusa, o emiro”. L’emiro era l’egiziano Ayman al Zawahiri, capo di al Qaida. Adnani spiegava che non era più tempo per lo Stato islamico di rispettare al Qaida, perché il suo gruppo era molto più potente. Tra le altre cose notava: “Non abbiamo mai attaccato l’Iran, perché questo era il volere di al Qaida. L’Iran dovrebbe avere un enorme debito di riconoscenza verso di loro”. C’è del vero. L’organizzazione di Bin Laden non ha mai colpito in territorio iraniano (anche se condivide le stesse posizioni ideologiche dello Stato islamico) perché ne ha troppo bisogno come collegamento tra l’Afghanistan, a est, e l’Iraq, a ovest. Persino Zarqawi, quando nel 2002 era in fuga dagli americani arrivati a Kabul, usò la cosiddetta rat-line, la scappatoia per topi, che da Mashad sul confine afghano permetteva di risbucare in Iraq. L’Isis ha voluto marcare la differenza, di nuovo.

Di più su questi argomenti:
  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)