Bandiere davanti all'Europarlamento (foto di Thijs ter Haar via Flickr)

Il ciclo elettorale europeo ci dice che non c'è salvezza fuori dalla moneta unica

Luciano Capone

Grecia, Spagna, Olanda, Francia: il partito dell’Eurexit ha perso ovunque. Ora tocca all’Italia

Roma. Extra euro nulla salus. Le elezioni francesi, con la vittoria di Emmanuel Macron e la sconfitta di Marine Le Pen, hanno delimitato un perimetro ormai invalicabile per le prospettive degli altri paesi europei e dei rispettivi movimenti anti sistema: non c’è salvezza politica (ed economica) fuori dalla moneta unica. Molti elettori hanno votato Macron per il suo progetto riformatore, ma larga parte dell’elettorato lo ha scelto per la paura del salto nel vuoto fuori dall’Eurozona proposto da Le Pen. La stessa leader del Front national si è resa conto di questa convinzione profonda e diffusa e negli ultimi giorni della campagna elettorale è corsa ai ripari proponendo non più un’uscita immediata dalla moneta unica, ma una negoziazione con l’Europa da condurre insieme alle altre forze sovraniste che si sarebbero affermate, in futuro, anche in Italia. Ora anche questa remota eventualità è definitivamente tramontata.

La vittoria di Macron non solo ha dimostrato che l’ipotesi di un’uscita unilaterale dall’euro viene rifiutata dall’elettorato, ma ha anche definitivamente chiuso lo spazio politico, già stretto e accidentato, per ipotesi e “piani B” come “l’euro a due velocità”, il divorzio consensuale tra “euro del Nord ed euro del Sud” o l’uscita “dall’alto” della Germania. Soprattutto grazie alla supplenza istituzionale della Bce, e grazie agli interventi di Mario Draghi, nessuna di queste strade è politicamente percorribile alla fine del lungo ciclo elettorale iniziato con la Grecia nel 2015 e che si concluderà con l’Italia nel 2018. A parte l’Italia, che deve ancora votare, in nessun altro paese europeo l’adesione all’euro è un tema al centro del dibattito politico. In Grecia Tsipras, dopo un inizio turbolento, è diventato un allievo disciplinato delle indicazioni della fu Troika; in Spagna, con una crescita al 3 per cento, l’euro non è mai stato in discussione; in Portogallo la coalizione di sinistra, dopo i duri anni del Memorandum, sta facendo politiche anti austerity ma sempre in accordo con Bruxelles; nei paesi del nord Europa, come Austria e Olanda, le forze europeiste si sono affermate sulle destre sovraniste; in Francia ha vinto l’europeista Macron e in Germania non dovrebbero esserci grandi scossoni politici con le elezioni di settembre: sia se, come si immagina, dovesse vincere di nuovo Merkel sia nel caso di un’affermazione del socialista Schulz.

 

Resta l’Italia, dove la somma dei partiti No Euro – come M5s, Lega e FdI – supera il 40 per cento. Ma come si è visto nelle altre tornate elettorali e da ultimo in Francia, il vento dell’Eurexit, che ha gonfiato le vele dei partiti sovranisti in questi anni di crisi e malcontento, si trasforma in una zavorra quanto più ci si avvicina alle elezioni e i “piani” di uscita si mostrano confusi e rischiosi.

L’Italia arriva al voto con un quadro internazionale ben definito e davanti a un’alternativa secca: da un lato l’uscita unilaterale e isolata, dall’altro un percorso di riforme all’interno dell’Eurozona. Se la prima scelta somiglia a un suicidio, l’altra comporta un percorso di riforme incisive per aumentare la produttività e tenere sotto controllo deficit e debito. Se fuori dall’euro non c’è salvezza, dentro non c’è la garanzia di un posto in Paradiso. Tocca fare un po’ di Purgatorio.

Di più su questi argomenti:
  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali