Emmanuel Macron con la moglie Brigitte (foto LaPresse)

Macron, l'incredibile diventato fenomeno politico

Giuliano Ferrara

Postgaullista e postsocialista, un animale unico ancor più che raro nel paesaggio della V Repubblica. Ma la vera svolta sta tra le righe della sua astuta e sostenibile normalità

Pubblichiamo la prefazione di Giuliano Ferrara al libro di Mauro Zanon "Macron. La rivoluzione liberale francese" che il Foglio sta anticipando a puntate e che a giorni sarà in libreria per i tipi di Marsilio. 


  

Emmanuel Macron è del 1977. È figlio di un tempo in cui ha origine l’ultima trasformazione del mondo contemporaneo, il periodo vitale che è il fondamento della sua avventura personale. Noi tendiamo a banalizzare, per capire l’ultimo segmento del Novecento la facciamo spiccia: mondializzazione, mercati aperti, Europa sovra-nazionale, individualismo, informazione digitale, diritti della persona come fondamento sociale. Anche per Emmanuel, pupillo di una stagione enigmatica, si va di corsa: nascita ad Amiens, nella terra piccarda di Giovanni Calvino e nella bambagia di una famiglia di medici di buon livello sociale, liceo e innamoramento precoce per Brigitte, la sua insegnante di lettere e futura compagna, dopo un di lei altro matrimonio e tre figli poi messi in comune, di ventiquattro anni più in là con l’età, giovinezza studiosa e brillante, cursus universitario di prima classe, filosofia e tirocinio nel giro di Paul Ricœur, pensatore protestante incline alla postmodernità culturale, banca per qualche anno e partnership Rothschild con accumulo di ricchezza personale, amministrazione pubblica come alto funzionario, all’Eliseo con François Hollande come consigliere finanziario e vicesegretario generale, infine ministro dell’Economia in sostituzione di un socialista di sinistra, dimissionario in rottura con lungaggini e inconcludenza del boss, fondazione di un movimento con le iniziali del suo nome e un anno dopo le presidenziali a nemmeno quarant’anni. Tutto oltre la velocità del suono. Per Douglas Murray, neoconservatore britannico delle grandi scuole, saggista brillante e intemperante del declino euro-occidentale, Macron è solo «la continuazione di un disastroso status quo opposta a un membro della famiglia Le Pen» («Sunday Times», 30 aprile 2017). Forse le cose sono un poco più complicate.

 

Marcel Gauchet, che è uno storico della democrazia moderna nel tempo lungo, a suo modo un filosofo della storia con la penetrazione di un Michel Foucault, ma su un registro di sobrietà che non era di Foucault, sostiene al termine di una ricerca in quattro libri sulla democrazia moderna che nell’ultimo terzo del Novecento, a partire dagli anni settanta, la tendenza del mondo occidentale all’autonomia del soggetto, all’emancipazione dalle strutture del religioso nel segno dei diritti individuali come dogma non più trascendibile dell’organizzazione sociale, fa un grande balzo in avanti. Macron nasce, cresce e si forma in quel tratto d’epoca, per fiorire come persona pubblica, enarca, banchiere e partner della Rothschild & Cie Banque, militante modernizzatore e riformista della sinistra e per due anni del Partito socialista, haut fonctionnaire e uomo di governo, infine costruttore del movimento politico En Marche! e un anno dopo candidato alle presidenziali del 2017. Che è la storia raccontata in questo buon libro fiducioso e informato di Mauro Zanon, osservatore della prima ora.

 

Ecco. La cosa più importante è capire bene che cosa accade al di là della politologia, dei confini storici tipici della V Repubblica in Francia, della dialettica tra partiti classici e movimenti populisti o nazionalisti, al di là della stessa notevole personalità ed eccezionalità o eccentricità di Macron rispetto allo standard antiliberale, antiborghese, giacobino e statolatrico, bonapartista, nazionale e socialista, della cultura, dell’antropologia, dell’ideologia francese. Nel campo lungo della storia, e con riferimento al tempo della sua e della nostra vita oggi, Macron è l’incredibile divenuto fenomeno politico, anche più di quanto non lo sia stato Donald Trump, con le sue mattane, nella vicenda presidenziale americana. Il suo guanto di sfida è nell’aver detto che «la cultura francese non esiste» (altro che il prevedibile e demagogico «America First!»), una bestemmia in senso letterale contro il celebrato rayonnement dell’universalismo nazionale, egalitario e libertario fatto di re e repubbliche da cinque secoli ad oggi, e in senso letterale anche una non verità, ma argomentata come compresenza multiculturale di diversità che accrescono e arricchiscono il patrimonio identitario del primo Stato-nazione d’Europa. Lo scandalo che è seguito a questa affermazione, biada per i comizi di Marine Le Pen e fonte di scetticismo generalizzato in quasi tutti gli ambienti della destra e della sinistra, è testimonianza della profondità incisiva del fenomeno Macron e del suo alto rischio storico, della sua novità e del suo collegamento con quest’epoca di «sovranità senza sovrano» (Gauchet), il grande balzo in avanti che alla fine del secolo scorso e in questo inizio di un nuovo millennio ha definitivamente fatto dell’homo democraticus il signore e padrone di se stesso nel mondo globale e di mercato segnato dalla filosofia dei diritti individuali e degli interessi individuali. Signore e padrone inquieto, che va dove non può non andare ma non sa bene dove vada. Dio e il suo ricordo soppiantati da un «modo di vita» e dai suoi idoli, dalle sue pratiche, dalle sue libertà dalla tradizione e dalle nuove catene dell’interesse e del self-improvement. La terra per tutti, il cielo per nessuno, nessuna dipendenza come era sempre stato, autonomia e diritti per ciascuno.

Il mondo sovrano del singolo messo in rete che non ha alcunché sopra di sé, che non ammette più la derivazione dei diritti della persona dalla trascendenza divina e dalla Rivelazione, una volta «impero latente» e resistenza dell’attaccamento alla tradizione come struttura del religioso e ora concetto estraneo al nuovo senso comune totale della democrazia dei diritti umani, il mondo che non ha più se non come memoria il dna della nazione sostituito dall’anatomia della società civile internazionalizzata. È questo il tempo-mondo in cui Macron e la sua generazione crescono nella vita privata e pubblica. Crescono fiduciosi in un presente legato alla dialettica del denaro, del libero commercio mondiale, del sapere tecnologico, dell’integrazione del diverso etnico e nazionale in un meticciato aperto anche a diverse comunità. È un contesto di società in cui si afferma la dittatura relativista dell’individuo e delle sue voglie, dove il massimo della solidarietà di vecchio conio è la sharing economy, dove tramontano ideologie e dottrine, ma in modo complesso, contraddittorio, suscitando spinte contrarie, alimentando paure e insicurezze in grande parte della popolazione. «Popolazione» è per i macronisti, cosa che la Le Pen au nom du peuple ha capito perfettamente e gli rinfaccia, la nuova definizione di «popolo», l’anonimato sociologico dell’era delle migrazioni e del transfrontaliero. Nella campagna presidenziale Macron ha civettato con il profetico, il carismatico, addirittura il «mistico della politica», che è il sentimento di una grande ambizione trascinatrice del fondatore di un movimento oltre i confini di destra e sinistra, europatriota di là dallo Stato e credente della società di mercato, ma la sua vantata «cristicità» è soluzione oratoria, non ha niente o poco a che vedere con l’ombra lontana delle radici culturali cristiane.

 

Il pragmatismo borghese-democratico di Macron, che ha rotto in modo fulmineo e improvviso con il contesto della sua ascesa politica, un socialismo che si vorrebbe modernizzante e in sintonia con Europa e mercati ma non ha il talento delle riforme e della nuova cultura digitale e trasformazionale, si presenta come il rispecchiamento di un sistema di autonomia assoluta «irreversibilmente installato» e insieme disarticolato, privo di una sintesi tra individuo, diritti, storia e nazione. In due o tre decenni, scrive Gauchet, abbiamo visto diffondersi «detradizionalizzazione, desubordinazione, disincorporazione, deistituzionalizzazione, desimbolizzazione», e la risultante alla quale Macron e quelli come lui devono fare fronte è semplice e a forte componente di rischio: «Come comandare a qualcosa che è per natura l’opera di una imprevedibile libertà?».

 

Macron ha anche, inevitabile, il profilo del politico quasi normale, ma si mantiene nell’eccezione irriducibile alla media. Fa sensazione, in particolare dopo l’affondamento dei partiti gaullista e socialista, il suo essersi messo al di là del discrimine destra-sinistra, il suo volere cooperazione e collaborazione trasversale con tutte le forze e i portatori di idee e di esperienze di qualità, il suo antipartitismo dolce. Colpisce la sua disinvoltura, quell’aria giovanile e pratica da senatore americano di prima nomina invece che di rodato e «gavettato» homme d’État della V Repubblica, lui che non è mai stato eletto da alcuna parte prima delle presidenziali del 2017. Stupisce il suo timbro di voce chiaro, leggero e talvolta in falsetto, così lontano anche solo dall’eco baritonale, tonante, del Generale fondatore delle istituzioni costituzionali in cui si muove con sconcertante agilità il giovane partner di Rothschild & Cie, uno – de Gaulle – che mai avrebbe mandato baci alla platea, e affettato un «je vous aime» come pegno di tenerezza e di amicizia. È stupefacente la sua scelta di denunciare come demagogiche, a fronte della carnale e materna adesione lepenista a tutte le pieghe del malessere e delle paure nazionali, le cure ansiogene promesse contro il declino della Patria e dell’identità. Se incontra gli operai diffidenti di una fabbrica in crisi da delocalizzazione in Polonia, Macron non promette stabilità dirigista dei posti di lavoro, nemmeno a pochi giorni dal turno decisivo delle elezioni, non incita alla lotta, non si mostra solitario risolutore del conflitto, propone invece un metodo contrattuale, adotta un linguaggio tecnico e di governo sociale in un contesto che è quello europeo e di mercato mondializzato. È stato stupor Galliae quando da ministro ha affrontato con metodo liberale, di democrazia sociale orientata alla limitazione del dirigismo pubblico, grandi crisi industriali nell’automobile e nel gruppo ferroviario Alstom. Con la sua équipe di economisti della brasserie La Rotonde ha incalzato le istituzioni francesi sonnacchiose e protettive verso la prospettiva di uno «choc de productivité». Concede poco, sulle questioni civili e cerimoniali, al sacro «dovere di memoria», qualche gerbe di fiori deposta ai piedi dei monumenti patri, omaggio en passant a Jeanne d’Arc nel luogo del rogo fatale e richiami alla continuità storica misurati e compassati, e affronta il rischio di definire «crimini contro l’umanità», nel linguaggio appunto dei diritti umani di oggi, le avventure crudeli del colonialismo francese in Algeria. È uno che schiaffeggia i leoni con il sorriso sulle labbra, con la verve e l’ottimismo che sembrano venire da un altro pianeta, nel pieno della grogne, del mugugno esasperato, del grugnito esagonale d’oggidì. È anche un tipo capace di sorprendere.

 

«C’è nel processo democratico e nel suo funzionamento un’assenza. Nella politica francese, questa assenza è la figura del re, di cui penso alla fine che il popolo francese non volle la morte. Il Terrore ha scavato un vuoto emozionale, immaginario, collettivo: il re non c’è più!». Per aver detto queste cose due anni fa, Macron è sospettato di royalisme, nostalgia retrograda della monarchia assoluta, da una parte della sinistra repubblicana e laica. Io non la penso così. Intanto la nostalgia del re francese decapitato è legata al metodo giacobino che ordinò la ghigliottina, così diverso dallo spirito pratico anglosassone che un secolo prima aveva ucciso il sovrano perché la monarchia sopravvivesse fino ad oggi come garanzia di tradizione e unità del regno. La Francia regicida adottò gli argomenti febbrili e sanguinari di Saint-Just, invece, e diede vita sul corpo senza testa di re e regina alla prima e allora unica Repubblica sul suolo europeo, se si eccettui l’esperienza elvetica e montanara, con il suo prolungamento napoleonico nelle guerre e nelle conquiste dell’impero. Titolo di nobiltà e di destino della Repubblica egalitaria, libera e fraterna, l’esecuzione di Luigi XVI e della moglie (e questo è un topos accettato di parte della cultura francese) ha effettivamente lasciato un vuoto psichico e immaginario riempito poi dalle mille avventure della restaurazione, del secondo impero, della III, della IV e della V Repubblica. Macron ha semplicemente raccolto e rilanciato il tema della «sovranità senza sovrano» a cui allude Gauchet, perché l’espansione a macchia d’olio, anche dottrinale, della democrazia dei diritti e del diritto, tipica della sua epoca di formazione e della nostra contemporaneità, implica uno squilibrio tra norma individualista, politica come appartenenza e fatto collettivo, senso della storia come passato e tradizione e della sua direzione d’avvenire. Macron è uno che ha studiato, che ha letto, che ha una formazione di umanista precedente alla preparazione tecnica e finanziaria e amministrativa della sua precoce maturità. Si è accorto che esiste un problema di legittimazione alla base del divenire sociale e del malessere occidentale, e coltiva la speranza di dare risposta alla questione dirimente della iperdemocrazia che oggi è messa in discussione da se stessa nel mito dello sviluppo, dell’Europa e del mondo aperti e mercatizzati, dell’eguaglianza delle opportunità per tutti, della cultura come intreccio di saperi diversi e non come ipostasi della nazione. Come dice Murray, è la «continuazione di un disastroso status quo», ma solo per i declinisti ortodossi, per chi non vede all’orizzonte altro che il tramonto europeo senza figli, senza fede, senza identità e nel rimpiazzo suicida delle popolazioni migranti che diluiscono il vecchio, caro, indimenticabile popolo.

 

La scommessa di cui Macron è espressione, fino a un certo punto pienamente consapevole, la sostanza del suo inaudito appello all’ottimismo opposto allo spirito apocalittico dell’estrema destra che si fa come sempre è avvenuto Nation et Peuple, terra e sangue, sia pure con una strutturazione argomentativa e politica riverniciata, è tutta qui. Macron è un credere nel presente, nello status quo come intrascendibile dominio di un senso comune della persona e della sua vocazione legato alla responsabilità personale e all’intrapresa, una chance per tutti e per ciascuno, come chiavi del futuro. Una folle e a suo modo canonica avventura borghese nell’incipiente XXI secolo. Forse una «continuazione disastrosa» di ciò che è e declina, forse invece una rivoluzione come scoperta, esplicitazione, tentativo di rintracciare lo spirito di un sovrano capace di imprimere un comando democratico e sociale, dunque liberale, visibile, alla sovranità anonima dei diritti individuali che è diventata l’Irrinunciabile anche per le forze dell’ideologia nazionale più o meno nutrita di xenofobia e protezionismo o del socialismo più o meno alimentato dal residuo solidale del classismo e della statolatria.

 

Bisogna essere ciechi o troppo attenti ai dettagli politicisti, all’aneddotica di nomenclatura, allo spirito di reportage che informa notizie e notiziole facilmente numéricables, irretite nella freddezza poco cartesiana e transumanista degli algoritmi, per non vedere lo scontro imperniato sul macronismo nella sua estrema semplicità: rivoluzione contro reazione. Presente contro passato, e lasciamo stare il futuro di cui nessuno ha mai davvero saputo alcunché, perché non esiste finché non si presenta. Benedetto Croce nel suo sottile realismo di idealista diceva notoriamente che «ogni storia è storia contemporanea». Il liberalismo sociale intriso della democrazia dei diritti è nozione problematica, e nel presente contemporaneo si sentono meglio che nel riferimento mitico al passato le molte cose che non vanno, ma nei comizi ottimisti e «ingenui» di Macron, con quella «tête de première communion» (sarcasmo di Jean-Luc Mélenchon), con quel procedere roteando gli occhi a scatti come nel teatro dei burattini, con quella freddezza argomentativa che ignora la pancia e parla al cervello, che descrive Europa e mondializzazione come occasione, si percepisce la virtù radicale dello status quo. Il candidato voleva smentire a ogni passo la famosa diagnosi di Jean Cocteau, secondo cui «i francesi sono italiani sempre di cattivo umore», e dava la caccia all’ottimismo e al bonheur di un’opinione repubblicana non rassegnata al ripiegamento su di sé, a un’idea chiusa e meschina di piccola protezione all’insegna del già visto, del già noto, dell’emozione umorale violenta e autolesionista che è parte del bagaglio tradizionale del Front national. Un’impresa con un suo titanismo, dissimulata nel linguaggio mite e modernizzante, disincarnato e individualista, di un politico di cui non si immaginava l’eguale ancora un anno prima della corsa finale. Macron non è un tenore della politica francese ed europea, non è un tribuno altisonante, usa la strumentazione classica dell’oratoria di campagna come uno strumento discorsivo, la usa per questioni difficili, che richiedono rispetto del sapere e della competenza per essere dipanate sia da chi è sul palco sia da chi è tra il pubblico. Il tono si fa personale, di senso comune progressista, e politicamente corretto quanto basta, in senso buono, quando risponde sulla sua famiglia che definisce «diversa» e che assume con fierezza come un tesoro personale e educativo. A Marine e al padre, il Menhir del fascismo aux couleurs de la France, che gli rimproverano insolenti la mancanza di figli propri, dunque la lontananza dalla prospettiva e percezione carnale del futuro per infedeltà ai modi del passato, Macron, ovviamente sospettato di essere gay, risponde con grinta, guardando la sua donna di ventiquattro anni più anziana, che ha sposato, con figli e nipoti di un altro matrimonio. È un’apologia della filiazione non biologica, ultimo traguardo dell’epoca dei diritti individuali: «Ho figli e nipoti del cuore, una gioia che voi non potete nemmeno pensare di provare». In questo libro si racconta l’astuta e sostenibile normalità di un politico postgaullista e postsocialista, un animale unico ancor più che raro nel paesaggio della V Repubblica, ma queste pagine vanno lette per quello che sta alla base del reportage d’informazione, del racconto ben fatto, e questo «tra le righe» di Emmanuel Macron è la sua insostenibile leggerezza, quanto di più radicale e rivoluzionario possibile a fronte del passatismo atroce dei nazionalisti. Altro che le legislative, la natura della coalizione parlamentare eventuale, la dinamica politica dei prossimi mesi e anni e altre quisquilie e pinzillacchere: questa è la vera svolta ad alto rischio del candidato inaudito.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.