La delusione di Trump, che voleva salvare 100 giorni in qualche ora

Il Nafta non si tocca, la controriforma sanitaria è ferma, il piano fiscale confuso. Lo sprint a vuoto del presidente

New York. Donald Trump si è mosso in modo rapido e maldestro per ottenere risultati significativi da portare al traguardo “insignificante” dei cento giorni. La Casa Bianca aveva comunicato di aver firmato più decreti di ogni altro presidente dai tempi di Roosevelt, ma ieri, mentre firmava un ordine esecutivo per estendere le trivellazioni petrolifere, il presidente si è spinto oltre: “Mai nessuno ha fatto tutto quello che abbiamo fatto noi”. In realtà, lo sprint dell’ultima settimana s’è risolto con due delusioni e mezzo. Prima delusione: la riforma sanitaria. Il naufragio, sotto la spinta dei venti interni al partito, del progetto di revocare e rimpiazzare l’Obamacare rimane il momento politicamente peggiore di questo inizio dell’amministrazione, crollata sotto i colpi della corrente intransigente del Freedom Caucus. E dire che gli intransigenti in questo romanzo politico dovevano essere i trumpiani. Il presidente ha lavorato con ostinazione, per tramite del vicepresidente, Mike Pence, per negoziare un compromesso e riportare al Congresso un disegno di legge sulla Trumpcare in grado di passare. Il Freedom Caucus, guidato dal deputato Mark Meadows, ha ufficialmente accettato di votare il testo, ma non c’è stato tempo di concludere l’opera febbrile di raccolta dei voti, e l’altra sera i leader repubblicani del Congresso hanno decretato che i numeri ancora non quadraano. Quindici deputati erano contrari, una ventina indecisi. La maggioranza può permettersi soltanto ventidue defezioni. Il ribelle domato Meadows rassicura: “Ce la faremo. E’ una questione di settimane, non di mesi. Sono ottimista, riusciremo ad approvare questa legge”.

 

L’ironia, assai amara per Trump, è che per accontentare una frangia estrema che considerava il suo American Health Care Act una “Obamacare light”, ora rischia di perdere i moderati. Il modo convulso e istintivo di condurre le trattative interne non sta portando un maggiore controllo delle dinamiche del partito, anzi.

Nel frattempo la vicenda della riforma sanitaria si è intersecata con il dibattito sul budget, complicato dalla sempiterna minaccia dello shutdown dei servizi federali. Ieri la Camera e il Senato hanno approvato una misura temporanea che rimanda il voto definitivo di una settimana, ma i democratici hanno vincolato il loro sostegno alla legge di bilancio alla separazione dalla riforma sanitaria, che il presidente avrebbe invece voluto infilare in un disegno di legge onnicomprensivo. Il dato politico è che Trump s’è dovuto piegare agli avversari interni al partito e poi a quelli esterni, dovendo sopportare Nancy Pelosi che, con qualche buona ragione, lo ha proclamato “il più grande organizzatore del Partito democratico che si sia mai visto”. Il risultato, comunque, è che Trump non ha fatto la controriforma sanitaria nei primi cento giorni, come aveva promesso.

 

La seconda delusione arriva dal Nafta, l’accordo commerciale con Messico e Canda che doveva essere stracciato e invece rimarrà, si vedrà poi in quali termini. La retromarcia sul Nafta, che da quando è stato stipulato, negli anni Novanta, è l’idolo polemico degli antiglobalisti di ogni schieramento. Dopo aver parlato al telefono con Justine Trudeau e Enrique Peña Nieto, i partner dell’accordo che gli hanno chiesto di uscire, Trump ha deciso di non chiamarsi fuori ex abrupto da “uno dei peggiori accordi della storia”, qualificato anche con il classico “total disaster”.

 

Perché ha fatto un passo indietro? Un’inchiesta del Washington Post spiega che sono stati i suoi stessi consiglieri a farlo desistere, in particolare il segretario del commercio, Wilbur Ross, che sulla carta doveva essere uno degli uomini chiave nello smantellare gli accordi di libero scambio. In un incontro, il segretario dell’agricoltura, Sonny Perdue, ha anche mostrato al presidente una mappa degli Stati Uniti che mostrava le aree rurali più colpite da un eventuale uscita dal trattato, indicando anche che molte di queste sono zone ad alta densità di elettori trumpiani. Il presidente, che non sopporta i documenti politici ma ama le cartine, ne è rimasto molto impressionato. Nel giro di qualche giorno ha cambiato idea sul Nafta, ordinando prudentemente una revisione preliminare del trattato. La dinamica mostra quello che Trump ha ampiamente fatto vedere nei primi centro giorni: il leader è ondivago e istintivo, ma anche incredibilmente malleabile. E non è un segreto che in questo momento la corrente interna alla Casa Bianca con più capacità di persuasione e influenza sia quella dei “liberal”, da Jared Kushner a Gary Cohn, che s’oppongono alla guerra commerciale molte volte annunciata e (per il momento) sempre evitata. C’è spazio di manovra per normalizzare il presidente, spingendolo diclmente verso posizioni del conservatorismo mainstream. Per lo scorno dei populisti, gli Stati Uniti non escono dal Nafta nei primi cento giorni di Trump, ma non hanno nemmeno dichiarato la Cina una manipolatrice di valuta, non hanno messo in pratica la filsofia “America First”, non hanno fatto una guerra intestina alla Nato e non hanno messo dazi nel piano fiscale presentato in tutta fretta. Il taglio delle tasse è la mezza delusione di questo scatto finale per segnare punti prima del traguardo reso simbolico da Roosevelt.

 

Su consiglio del segretario del Tesoro, Steve Mnuchin, già tempo fa il presidente aveva accantonato l’idea di presentare il suo piano di riforma fiscale entro la scadenza dei cento giorni. La settimana scorsa, però, durante un briefing ha realizzato che la colonna delle cose fatte nei primi cento giorni era sostanzialmente sguarnita. La ricorrenza sarà anche “ridicola” e “artificiale”, come twitta , ma il presidente non era pronto a sopportare una pioggia di analisi spietate sulla sua inconcludenza. Così ha commissionato al volo un piano fiscale a consiglieri attoniti, che nel giro di qualche giorno sono arrivati con uno scarno schema di una pagina, pieno di tagli alle tasse e strapieno di incognite. Ma almeno Trump ha avuto la sua pezza d’appoggio.

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